L’Europa a rischio totalitario

Di Luca Del Pozzo
10 Dicembre 2020
Riflessioni intorno allo scontro tra tra Polonia e Ungheria, da una parte, e il resto dell’Europa, dall'altra

C’è una domanda in merito alla contrapposizione tra Polonia e Ungheria, da una parte, e il resto dell’Europa, dall’altra, sulla ratifica dell’accordo sul bilancio 2021-2027 dell’Ue, alla quale prima o poi bisognerà dare un risposta. In primis gli intellò di casa nostra che ogni due per tre si stracciano le vesti inorriditi di fronte a cotanta protervia dei due stati del cosiddetto blocco di Visegrad. La domanda è la seguente: è preferibile un governo che dietro i vessilli della democrazia cela un autoritarismo invasivo e virulento o governi sovranisti e manifestamente autoritari come quelli ungherese e polacco? Detto altrimenti, la scelta non è – come si ostina a strillare all’unisono la stampa mainstream – tra democrazia e diritto da una parte, incarnati da Bruxelles, e autoritarismo illiberale dall’altra, incarnato all’opposto dal tandem Orban-Morawiecki; la scelta è piuttosto da tra due differenti forme di autoritarismo, l’una trasparente e, piccolo dettaglio, scelta dal popolo sovrano (e già basterebbe questo per zittire chi usa il termine “sovranismo” in modo dispregiativo posto che fino a prova contrari i popoli sono sovrani a casa loro), l’altra invece camuffata dietro il suadente volto di una democrazia formale quanto alle procedure, ma nella sostanza decisamente autoritaria nei confronti degli stati membri.

La stessa vicenda da cui siamo partiti è solo l’ultimo esempio, ma se ne potrebbero fare molti altri, di quanto l’Europa sia molto più autoritaria e illiberale di quanto non sembri e voglia apparire. Né sono Polonia e Ungheria a tenere sotto scacco l’Europa, ma il contrario. Come? Col meccanismo stesso che vincola lo stanziamento delle risorse economiche, incluso il Recovery Fund, alla sottoscrizione delle clausole sullo “stato di diritto” concordate da Parlamento europeo e presidenza tedesca del Consiglio dell’Ue.

Leone Grotti ha ben evidenziato qui quello che è il punto dolente della questione: «Con Stato di diritto, infatti, la Commissione europea non si riferisce soltanto ai temi della magistratura indipendente, della lotta alla corruzione, del pluralismo dell’informazione, del bilanciamento dei poteri, e in generale della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. Intende dare vere e proprie patenti di democraticità agli Stati anche in base alla tutela dei nuovi diritti civili. Nel primo report del 30 settembre sul rispetto dello Stato di diritto nell’Ue, ad esempio, la Polonia è stata censurata per il trattamento di Ong e gruppi Lgbt. Ursula von der Leyen ha poi parlato della necessità di definire strategie per realizzare un piano che implementi l’ideologia Lgbtqi negli ordinamenti giuridici dell’Unione e degli Stati membri».

Ecco il “ricatto” – per usare lo stesso termine con cui Polonia e Ungheria sono state stigmatizzate – della solidale e fraterna Europa: risorse economiche in cambio dell’adozione sine glossa di ben precisi standard di democraticità, tra cui l’attuazione – come ha specificato la Comunicazione n. 698 della stessa Commissione Europea varata il 12 novembre scorso – di interventi finalizzati a promuovere e sostenere la causa LGBTQI negli ordinamenti giuridici dell’Unione e degli Stati membri, tra i quali l’introduzione del reato di omofobia a livello europeo (le suona familiare, onorevole Zan?), il mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della omogenitorialità e dei matrimoni samesex, l’assegnazione di fondi e finanziamenti specifici per le iniziative LGBTQI, ecc. Il tutto con l’obiettivo, come ha acutamente denunciato il Centro Studi Livatino, di «influenzare gli Stati membri in settori di loro esclusiva competenza nazionale, in relazione ai quali la Commissione si attribuisce il compito di fornire “orientamenti politici, coordinare le azioni degli Stati membri, monitorare l’attuazione e i progressi, fornire sostegno attraverso i fondi dell’UE e promuovere lo scambio di buone pratiche tra gli Stati membri”». 

Insomma, quella stessa Europa che punta il dito contro Polonia e Ungheria ree di porre veti ricattatori, ha messo nero su bianco che se tu, Stato, vuoi avere i soldini devi sposare e promuovere la causa LGBTQI. No, dico, ci siamo persi qualcosa? Giustamente gli studiosi del Centro Livatino osservano che il succitato obiettivo, come pure le iniziative previste per il suo conseguimento, «esulano radicalmente dalle competenze degli organi dell’Unione Europea e costituiscono una illegittima intrusione nelle sfere di esclusiva sovranità degli Stati membri». Da qui la domanda: «Polonia e Ungheria sono “colpevoli” di ricatto economico verso il resto dell’Ue? O la gran parte delle istituzioni comunitarie intende approfittare della pandemia per imporre alle Nazioni riottose i propri diktat sull’identità di genere, mascherandole dietro il rispetto omogeneo dello Stato di diritto?».

Come si vede, una domanda che ricalca muovendo da altra prospettiva quella che abbiamo posto all’inizio di questa riflessione. Ora anche a voler sorvolare sul fatto che è quanto meno curioso che buona parte di quanti all’epoca puntavano il ditino contro la politica americana e la dottrina dell’”esportazione della democrazia” praticata a suon di bombe, ora non abbia nulla da ridire ad una Europa che intende fare lo stesso nei confronti di Polonia e Ungheria solo in maniera più soft, a chi sostiene che le clausole sullo stato di diritto si giustificano proprio nell’ottica di scongiurare il pericolo di un revival degli orrori del passato andrebbe ricordato che non è con un autoritarismo camuffato ancorché condiviso che si può pensare di arginare potenziali derive autoritarie; e che anzi una politica muscolare all’insegna dell’aut-aut è il modo migliore per gettare benzina sul fuoco del risentimento e della chiusura a tutela dei propri interessi.

È nota la frase di Winston Churchill secondo cui la democrazia è il peggiore dei sistemi politici fatta eccezione per tutto il resto. Vero. Dopo di che la domanda resta: lo decide l’Europa che cosa vuol dire democrazia, quali valori la informano e chi ha titolo per essere ammesso nel consesso dei paesi democratici? E soprattutto, lo decide l’Europa se le scelte di un popolo, qualunque esso sia e qualsiasi siano le sue scelte, vanno bene oppure no? Lo “stato di diritto” non può diventare un alibi o un pretesto per coprire gli aspetti problematici del vivere democratico, tanto più nel caso dell’Europa. Uno di tali aspetti concerne la questione se e fino a che punto la versione europea della democrazia nasconda o possa nascondere al suo interno dinamiche di tipo totalitario. Spiace dirlo, ma i segnali che vanno nella direzione di un pericoloso totalitarismo sono più d’uno. E non vengono né dalla Polonia né dall’Ungheria. Come altro definire se non di ordine totalitario un clima culturale, che poi volenterosi burocrati si incaricano di tradurre in risoluzioni, comunicazioni, direttive, ecc., all’insegna di un pensiero uniformato e uniformante che non tollera la benché minima voce contraria e che pervade ogni ambito della realtà? C’è un segnale, in particolare, che dice più di altri la situazione in cui ci troviamo.

Esso è il sempre più diffuso senso di paura che pervade la nostra società. Si tratta di un genere di paura muto, strisciante, quasi inavvertibile e inconsapevole, che tuttavia esiste e condiziona atteggiamenti, scelte, modi di sentire e agire. In Italia uno dei primi e più acuti osservatori di questa realtà fu Augusto Del Noce, che in un magistrale articolo del 1984, “La verità e la paura, così la descriveva:

«La realtà presente in ragione dell’abbandono dell’una e medesima coscienza morale, manifesta una pluralità contraddittoria di posizioni morali. Allora effettivamente avviene che il criterio della maggioranza si risolve nel dominio degli eterodiretti; di coloro cioè che sono diretti dall’industria culturale, vera scuola d’ignoranza… E l’individuo anziché sentirsi fine, non può sopravvivere se non facendosi mezzo, con l’adeguarsi cioè ai gusti di questa maggioranza o piuttosto dei gruppi che hanno prevalso. Il suo farsi mezzo è obbedire al bisogno dell’autoconservazione, cioè alla paura».

Per Del Noce tutto nasce dall’abbandono della metafisica che ha comportato l’affermazione del pluralismo culturale e del relativismo etico, due fattori che possono trasformare la democrazia in tirannide. Una lettura, questa del filosofo cattolico, che si situava sulla stessa lunghezza d’onda di un altro, autorevolissimo interprete dei nostri tempi, san Giovanni Paolo II. Assai significativo in tal senso è questo passaggio del suo discorso al Parlamento italiano del 14 novembre 2002:

«Nella Lettera enciclica Veritatis splendor mettevo in guardia dal “rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità” (n. 101). Infatti, se non esiste nessuna verità ultima che guidi e orienti l’azione politica, annotavo in un’altra Lettera enciclica, la Centesimus annus, “le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia” (n. 46)».

Qualche anno più tardi, gli avrebbe fatto eco l’allora card. Jospeh Ratzinger che nell’omelia della Missa pro eligendo romano pontifice così rappresentava la situazione:

«Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».

La problematicità del pluralismo e del relativismo etico consiste nel fatto che nel mentre esaltano, a livello teorico, il ruolo del singolo, della sua autonomia e della sua libertà, di fatto lo conducono ad omologarsi all’opinione ed ai comportamenti della maggioranza (ciò che può accadere su più vasta scala a livello di popoli). Ma tutto si riconduce a quello che per Del Noce è il vizio di fondo della democrazia: l’aver scisso libertà e verità. A ben vedere, ci sono ragioni più che valide che impongono un serio ripensamento non tanto e non solo dei meccanismi di funzionamento quanto piuttosto, e primariamente, dell’idea stessa di Europa.

Foto Ansa

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.