
Lettera ai genitori di Nicola Tanturli

Cari Leonardo e Giuseppina, genitori di Nicola Tanturli, il bambino smarrito e poi ritrovato fra le colline del Mugello, io non vi conosco di persona ma vi ammiro. E spero con tutto il cuore che non avrete noie giudiziarie, che i servizi sociali non rivolgeranno uno sguardo maligno sulla vostra famiglia e che non diventerete il tormentone di qualche trasmissione televisiva cosiddetta “d’inchiesta”.
Non so nulla delle vostre idee filosofiche, politiche, religiose, ma attraverso il caso di cronaca che ha riguardato vostro figlio ho appreso della vostra scelta di vita, quella dell’autonomia nella frugalità e del rapporto non utilitaristico con le persone e con la natura, dello sforzo di rispettare l’essere delle persone e delle cose, della fruizione anziché del mero uso della realtà (questo è sant’Agostino, che forse non avete letto ma che state mettendo in pratica).
Sostenibile e eco-compatibile
Ho imparato che producete da voi stessi tutto ciò che serve al vostro consumo alimentare, che allevate tantissime api, che non siete allacciati alla rete elettrica pubblica ma vi servite di un piccolo impianto fotovoltaico per procurarvi l’energia di cui avete bisogno, che non avete tivù e connessione a internet. Che sapete distinguere un’erba velenosa da una pianta medicinale, il legno per costruire un recinto da quello per farci degli attrezzi, il verso del fringuello da quello della cincia mora.
La maggioranza di quelli che simpatizzano per voi sottolineano che il vostro stile di vita è “sostenibile” ed “eco-compatibile”, aggettivi che mettono tristezza con la loro freddezza asettica da manuale di sociologia o da documento della Commissione Europea.
Amare significa nutrire
Io invece vi ammiro – e provo anche invidia – per lo stile della vostra vita familiare, che è inseparabile dal rapporto che avete cercato di instaurare con il creato. Tanti oggi chiacchierano di decrescita felice, di stili di vita non consumisti e si lasciano condizionare dalle pubblicità televisive che ci molestano vantando le qualità “green” dei prodotti che ci vogliono fare acquistare. Voi avete perfettamente capito che il consumismo e il conseguente degrado dell’ambiente (e della natura umana: non dimentichiamolo) si contrastano seriamente solo se la famiglia torna ad essere luogo di produzione anziché, come è diventata, luogo esclusivamente di consumo. Allora il fare insieme – marito e moglie, genitori e figli che insieme coltivano la terra, allevano gli animali, costruiscono e riparano la casa – diventa più importante della quantità di beni che quel fare produce, perché prima ancora dei beni materiali il lavoro comune produce beni affettivi, che sono quelli delle relazioni fra i membri della famiglia.
Come scrive Fabrice Hadjadj,
«amare qualcuno significa nutrirlo, vestirlo, alloggiarlo e tessere con lui una comunità di vita attraverso attività comuni. (…) Oggi regnano il lavoro salariato e il commercio, e non torneremo alla vita del primo secolo. Ma la casa “tiene” soltanto se l’amore vi si incarna. E l’amore vi si incarna perché vi si produce insieme, perché vi si comunicano dei saperi».
Dove abbiamo sbagliato?
Oggi tanti si lamentano di non riuscire a trasmettere ai figli i propri valori, la propria fede religiosa, la propria visione del mondo. «Dove abbiamo sbagliato?». Abbiamo sbagliato nel pensare che si potesse prescindere dalla vita materiale, che bastava lo spirito d’amore, quello che si esprime nella dedizione (dove l’unica materialità è quella dei regali che si fanno ai bambini, materialità unidirezionale) e nel buon esempio.
Ma qual è quel genitore che può garantire l’assoluta coerenza morale? Oggi sono i figli che trasmettono saperi ai padri, e non più viceversa: sono i figli che insegnano a scaricare l’ultima app, ad attivare un account, che risolvono i problemi del nostro pc o del nostro cellulare. Come possono avere stima di ciò che vorremmo trasmettere loro circa i valori e le virtù che devono guidare la vita se ci dimostriamo così impreparati, così anacronistici davanti alle innovazioni tecnologiche che permeano la loro e la nostra esistenza?
Invece a Nicola e a Giulio (il fratello del bimbo che si era perso) i genitori trasmettono e trasmetteranno dei saperi unici: come aiutare le api a farsi un alveare e come raccogliere il miele senza farsi male, come si costruisce una zappa o una roncola, come si tira su un muro, come si pota una pianta, come ci si comporta quando si incontra un animale selvatico. La gratitudine per questi saperi pratici – che implicano lo sviluppo della manualità oggi messa quasi al bando dalla società ipertecnologizzata e l’apprendimento delle leggi delle cose, che non rispondono ai nostri capricci ma solo a richieste rispettose della loro natura – crea nei figli il terreno ideale per accogliere i saperi intorno a Dio, alla natura, alla generazione umana, alle relazioni sociali che i genitori desiderano trasmettere loro. Papa Francesco scrisse al Congresso latinoamericano di pastorale familiare che la fede si assorbe col latte materno, ma si assorbe altrettanto bene imparando nella bottega di un padre falegname o nella cucina di una madre casalinga.
Autonomia e libertà
Ho solo una critica di farvi, cari Leonardo e Giuseppina. Alcuni commentatori hanno fatto notare che il vostro ideale di vita autonoma si è infranto contro la realtà rappresentata da in figlio smarrito nei boschi: da soli non siete stati capaci di ritrovarlo, e avete avuto bisogno di chiamare aiuto e di accettare una battuta con grande dispiego di uomini e mezzi. Senza le risorse della società da cui avete preso le distanze – le risorse rappresentate dalle tasse versate dai contribuenti che servono a mantenere il grande apparato della Pubblica Sicurezza e della Protezione civile – non avreste riavuto vostro figlio.
Dovete darvi una regolata – dicono – perché il vostro modo di vivere ha comportato un forte costo sociale. Fatta la tara della concezione ragionieristica della convivenza sociale che sta dietro a queste critiche, i loro autori non hanno tutti i torti. Se una certa idea di autonomia produce conseguenze problematiche, per quanto non intenzionali, una riflessione è necessaria.
E io la imposterei così: autonomia non significa assenza di limiti; libertà non è assenza di divieti. È giusto che i bambini non vivano sotto una campana di vetro, sotto la costante sorveglianza degli adulti; è giusto che facciano esperienza della realtà anche inciampando a cadendo, anche scoprendo da sé che alcuni comportamenti sono da evitare perché fanno male. Ma questo non potrà mai significare che per fare esperienza bisogna togliere tutti i limiti e tutti i divieti: una porta chiusa a chiave, una cancellata, una recinzione difficile da scavalcare rappresentano non l’ostacolo al fare esperienza, ma l’alveo, il confine, il perimetro, la forma che rendono possibile l’esperienza.
Schiavi delle pulsioni
Una libertà senza forma non è libertà, è dismisura, è abuso, è processo autodistruttivo. E non è vero che i genitori devono solo rapportarsi ai figli “in positivo”, cioè senza vietare nulla ma solo mostrando il buono e il bello di un certo modo di comportarsi; cito ancora Hadjadj che scrive:
«Niente è più positivo che un interdetto. Non bisogna interdirsi di interdire. Questo verbo non esprime niente di negativo: inter-dire significa dire qualcosa in un modo tale che si stabilisce una relazione fra due persone assolutamente distinte».
E infatti Jahvé imposta il suo rapporto con Mosè e il popolo comunicando comandamenti che sono costituiti soprattutto da imperativi negativi. Dove nulla è vietato non siamo liberi, ma schiavi delle nostre pulsioni.
Cari Leonardo e Giuseppina
Lo smarrimento e la dismisura sono inevitabili: la vicenda di Nicola può essere letta come la traduzione fattuale del giudizio secondo cui l’assenza di limiti produce smarrimento al quale si cerca di porre riparo con la dismisura.
Se di qualcosa la famiglia Tanturli è colpevole, non è, come ha scritto qualcuno, di una fede ingenua nella bontà della vita naturale, ma di quel tanto di ideologia moderna prometeica che è in ciascuno di noi, e che ci illude che libertà e autonomia si realizzino solo se ci liberiamo dei limiti materiali, sociali, morali che incontriamo intorno e dentro di noi.
Cari Leonardo e Giuseppina, sarete tanto più autonomi quanto più riconoscerete il carattere liberante che c’è nel limite, sia quello che si impone nel rapporto fra l’uomo e la natura, di cui siete ben consapevoli, sia quello proprio della natura umana.
Foto Ansa
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