L’età dell’oro (pubblico) della ricerca non tornerà. Ora lo sa anche la Hack

Ma che sta succedendo? A fine giugno l’Unità ha pubblicato un appello al presidente Giorgio Napolitano dal titolo “Salviamo la ricerca”, firmato da un nutrito gruppo di professori universitari e scienziati capitanati da Margherita Hack, e dai toni estremamente preoccupati: «Ora si è superato il limite e siamo ormai al punto in cui passione e dedizione non bastano più. Se le cose non miglioreranno in tempi brevi, non ci resterà che chiudere i laboratori, con gravi conseguenze anche sulla didattica universitaria». Eravamo abituati a leggere appelli simili soltanto quando il ministro dell’Università e della Ricerca non era di sinistra. Durante il ministero Moratti furono bloccate le università e mobilitati gli studenti per una piccola riforma che non li riguardava affatto. Si dipingeva un quadro terrificante, anche se il più grande torto del centrodestra è stato di aver fatto poco per l’istruzione e, casomai, di aver seguito le orme dell’opera dei governi di centrosinistra, senza correggere gli errori da questi compiuti.
Nell’era Berlinguer nessuno fiatò di fronte all’autentico terremoto cui vennero sottoposte l’università e la ricerca. Non che vi fosse un consenso reale sui provvedimenti. Al contrario. Soprattutto quando si vide a cosa avevano portato quelle “riforme” il mugugno divenne generale. Oggi, la grande maggioranza dei docenti universitari è convinta che la struttura in lauree triennali e specialistiche sia un disastro che ha dequalificato l’università e sforna a getto continuo ignoranti con tanto di titolo avente valore legale. La maggior parte delle lauree triennali non serve a niente, e quasi tutti gli studenti continuano con la laurea specialistica. Il delirante marchingegno dei crediti costringe a una ridicola e frustrante contabilità in cui emergono coloro che amano la burocrazia e la gestione più che la ricerca e l’insegnamento. L’autonomia di università che restano statali e non sono libere neppure di decidere il livello delle tasse, è una burla e un cappio al collo. Il degrado della ricerca scientifica è una conseguenza del degrado delle università, che in Italia hanno un ruolo preponderante al riguardo. Però la maggior parte del mondo accademico si è limitata a brontolare e soffrire in silenzio.
Dopo un quinquennio di governo di centrodestra che non ha saputo raddrizzare il sistema con scelte radicali e ha sostanzialmente continuato sulla stessa via – e a cui però sono state addebitate tutte le colpe – l’avvento del governo Prodi era salutato come la venuta del messia. A raddrizzare le cose ci avrebbe pensato la sinistra, che ha attenzione per la cultura, per la ricerca, per la scienza, a differenza delle bestie incolte che abitano dall’altra parte. La centralità della cultura e della ricerca scientifica di base, un potente flusso di finanziamento pubblico della ricerca: ecco come sarebbe risorta l’Italia dalla decadenza. Ora ci si accorge che questo governo è capacissimo di mandare in malora università e ricerca scientifica mostrandosi persino incapace di formulare il bando annuale per i progetti di ricerca nazionali e facendo tagli che nessuno ha mai osato fare pur di finanziare con ogni mezzo lo scandalo mondiale di mandare la gente in pensione a 57 anni. Non siamo certi che alcuni dei firmatari abbiano ancora compreso la contraddizione di essere vicini a quella estrema sinistra che a parole difende la ricerca pubblica e poi preferisce dare la pensione ai giovanotti e finanziare le feste culturali militanti, ma che si levino simili grida di protesta, dopo un silenzio complice durato anni e anni, è un segno dei tempi.

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