
Leggere Repubblica e scoprire che la vera “Mafia Capitale” di Roma è la burocrazia

«Negli uffici, specie in quelli periferici, è un codice non scritto che tutti conoscono: io, impiegato, ti do la possibilità di sbrogliare le carte, e tu imprenditore mi dai qualcosa in cambio. Oggi è la politica a essere accusata di ogni nequizia, ma il vero potere è in mano alla burocrazia». Dice così oggi a Repubblica Lucio D’Ubaldo, ex assessore al Personale del comune di Roma. Si parla di “Mafia Capitale”, inchiesta molto cavalcata dal quotidiano capitolino che non ha lesinato in questi tempi toni accesi e polemici nei confronti del malaffare politico in città. Oggi, però, a leggere la cronaca che Repubblica fa sugli ultimi sviluppi dell’inchiesta, l’osservazione di D’Ubaldo sembra centrare il punto meglio di tanta retorica anti-casta. Perché, appunto, la lente d’ingrandimento andrebbe messa sulla burocrazia, non sulla politica (e pur ricordandosi sempre che trattasi di indagini, dunque tutto da prendere son le molle).
LA BUROCRAZIA. In ogni caso, qualche domanda andrebbe fatta su come funzionano le cose in Italia, dove – come abbiamo sempre sostenuto – è il proliferare di leggi e passaggi burocratici il vero fattore che alimenta la corruzione. Quel che descrive Repubblica sembra darci ragione: un sottobosco dove «mazzette e regali» servono a sveltire pratiche e a «chiudere gli occhi» su lavori di manutenzione stradale, concessioni balneari, cancellazione di multe. Ma i protagonisti di questa vicenda non sono i politici, ma i travet degli uffici pubblici e i funzionari. Eccolo «il vero salario accessorio dei dipendenti comunali, altro che contratto decentrato», dice con un’altra battuta D’Ubaldo.
Ma, allora, se stanno così le cose (il “se” è d’obbligo), la ricetta è totalmente diversa rispetto a quella proposta dal neo-assessore alla Legalità Alfonso Sabella che a Repubblica, prima ammette che il problema «è la burocrazia», e poi invoca un «nuovo regolamento sugli appalti». Un’altra legge, insomma, che andrebbe ad aggiungersi alle già altre centomila che determinano, controllano, specificano e non fanno altro che ingarbugliare la matassa. Invece la soluzione è più elementare: poche leggi e chiare. Chi non le rispetta, paga. La confusione e la proliferazione dei passaggi sono il primo incentivo al malaffare.
LA MAFIA E’ TUTT’ALTRO. C’è poi un altro aspetto che non può non essere segnalato, e che è ben evidenziato oggi sul Foglio da Giuliano Ferrara. L’Elefantino riporta le parole pronunciate in una scuola romana da Salvatore Nottola, procuratore generale presso la Corte dei Conti. «Secondo me quando si parla di mafia a Roma si fa un errore – ha detto Nottola, come riportato da Repubblica -. C’è una improprietà di linguaggio. La mafia è tutt’altro… Sarebbe pericoloso definire qualunque cosa mafia, si toglie il significato, la potenzialità pericolosa al fenomeno mafioso vero e proprio, che poggia su altre basi. Quella siciliana sul collegamento fra le persone, sulla gerarchia, sulla consuetudine antica. La ‘ndrangheta, invece, si costruisce sull’alleanza delle famiglie e così via. La mafia romana è un’altra cosa. È una combriccola di delinquenti di matrice a volte politica, a volte semplicemente delinquenziale. Che poi ci siano dei collegamenti e delle alleanze episodiche tra questi fenomeni e personaggi mafiosi, è un altro discorso. Sono fatti accidentali, sono complicità. Ma la natura di questo fenomeno romano è ben altra quindi va distrutta molto più facilmente».
Insomma, anche in questo caso, ragiona Ferrara, i quotidiani – e, guarda caso, proprio Repubblica – sono arrivati al punto «di costruire su basi effimere una storia di mafia issata sulle spalle di filiere delinquenziali in cui i boss dei boss si scambiano pizzini verbali chiacchierando su una panchina nelle adiacenze di una pompa di benzina». Suggestioni, che però, grazie all’insistenza sull’aggravante mafiosa hanno «consentito forzature repressive, compresi i mezzi straordinari di indagine e l’applicazione dell’articolo 41 bis».
Foto archivio da Shutterstock
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