La preghiera del mattino

Le sorti della grande industria privata italiana interessano così poco?

Di Lodovico Festa
02 Agosto 2023
Rassegna ragionata dal web su: le manovre intorno agli assetti di Fininvest, Pirelli, Tim e Stellantis, il ruolo di Eni e altri gruppi a controllo statale, le controindicazioni dei capitali cinesi, la partita di Del Vecchio
Pneumatici Pirelli
Foto Ansa

Su First online Franco Locatelli scrive: «In pochi giorni per almeno quattro grandi gruppi del capitalismo italiano molto è cambiato e chissà cosa succederà. Prima la scomparsa di Silvio Berlusconi, poi l’adozione della Golden Power per Pirelli, quindi lo scacco del management italiano di Tim ai francesi di Vivendi, infine la crescente pressione politica e sindacale su Stellantis perché si tuteli l’interesse italiano con l’ingresso nel capitale dello Stato attraverso Cdp. Per fortuna il capitalismo italiano non si esaurisce in questi quattro grandi gruppi e la crescita delle medie imprese familiari insieme a quella dei grandi gruppi pubblici, senza dimenticare le banche e le assicurazioni, ne ha progressivamente cambiato la natura. Ma non c’è ombra di dubbio che il futuro di Fininvest e soprattutto di Mfe, come ora si chiama la società europea che riunisce le tv berlusconiane, quello di Pirelli in regime di Golden Power, quello di Telecom Italia (oggi Tim) alle prese con la cessione della rete con il dissenso del suo primo azionista (Vivendi) e quello di Stellantis, su cui si affaccia un variegato stormir di fronda, siano un passaggio cruciale che difficilmente lascerà tutto come prima».

In diverse fasi della storia italiana si è discusso se la nostra nazione potesse permettersi una grande industria privata del tipo di quella dei maggiori paesi europei. Di questi tempi la grande industria privata sta scomparendo in diversi comparti strategici, ma la discussione su questo fenomeno, al contrario che nel passato, è distratta.

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Su Startmag Marco Dell’Aguzzo scrive: «Ieri l’amministratore delegato di Ferretti, Alberto Galassi, ha iniziato – come riporta il Corriere della Sera – il suo discorso con un ringraziamento al presidente di Weichai: “Senza di lui non ce l’avrei mai fatta”. Nel 2012, anno dell’ingresso di Weichai, Ferretti Group era infatti in crisi: al tempo, ha ricordato Galassi, “nessuno considerava Ferretti. Tan Xuguang vide un Riva ormeggiato e lo raccolse, rilanciandolo insieme al gruppo. Dobbiamo il successo alla visione di quest’uomo”. Intervenuto da remoto, Tan Xuguang ha detto che nel 2012 il fatturato di Ferretti era di 300 milioni di euro circa, mentre oggi ha superato 1 miliardo. Galassi ha dichiarato che il 2023 è stato “l’anno migliore dal rilancio” e che la società vuole concentrarsi su nuove acquisizioni».

La presenza di capitali stranieri è essenziale per tenere alto il livello della nostra produzione industriale, e in questo senso sono benvenuti anche quelli cinesi. Con l’avvertenza però di riflettere sull’esperienza di Marco Tronchetti Provera, che pensava di avere introdotto nel gruppo Pirelli un “collega”, un grande imprenditore chimico di Shanghai, e poi si è trovato a dover fare i conti con il comitato centrale del Partito comunista cinese.

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Su Formiche Emanuele Rossi e Otto Lanzavecchia scrivono: «Con un’operazione dal valore altissimo, in termini sia economici che geopolitici, la major energetica italiana Eni ha annunciato di aver acquistato Neptune, società di private equity valutata 4,9 miliardi di dollari. Si tratta del più grande “cash deal” nel settore europeo del petrolio e del gas da quasi un decennio. Neptune, con sede a Londra, produce petrolio e gas da giacimenti in otto paesi, tra cui Regno Unito, Norvegia, Germania, Algeria, Paesi Bassi e Indonesia (dove già condivide una licenza con la società di San Donato Milanese). Secondo i termini dell’accordo annunciato oggi, venerdì 23 giugno, Eni acquisirà Neptune per 2,6 miliardi di dollari, mentre Var Energi — controllata norvegese dove Eni è al 63 per cento — andrà a rilevare le attività della società in Norvegia per 2,3 miliardi di dollari».

Eni, Fincantieri, Leonardo-ex Finmeccanica, Enel: tra le poche grandi imprese italiane strategiche che si muovono sulla scena globale, molte sono ancora controllate dallo Stato. Forse se non avessimo gestito il – pur per alcuni versi inevitabile – processo di privatizzazione degli anni Novanta con la sventatezza di Carlo Azeglio Ciampi e Pier Luigi Bersani, nonché con il familismo affarista di Romano Prodi, se avessimo seguito i consigli di un grande giurista economico come Giuseppe Guarino, oggi nelle telecomunicazioni, nella siderurgia e in altri settori fondamentali non ci troveremmo nelle condizioni in cui siamo.

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Su Open si scrive: «Venerdì 30 giugno l’Ivass, l’istituto che vigila sulle assicurazioni, ha autorizzato la Delfin della famiglia Del Vecchio a salire al di sopra del 10 per cento di Generali. La richiesta era stata presentata il 17 aprile scorso. Dopo che Francesco Milleri aveva chiesto alla vigilanza di salire sopra la soglia. Questo vuol dire che a poco più di un anno dallo scontro si riapre la partita Mediobanca-Generali. All’epoca Del Vecchio, insieme a Francesco Gaetano Caltagirone, alla famiglia Benetton e alla Fondazione Cassa di risparmio di Torino, aveva sfidato la lista promossa e sostenuta in consiglio di amministrazione da Piazzetta Cuccia. E aveva perso, raccogliendo il 30 per cento del capitale. Adesso si gioca il secondo round. E, spiega Repubblica, se Delfin decidesse di aumentare la sua partecipazione fino al 20 per cento, gli equilibri potrebbero ribaltarsi».

Problema centrale del nostro capitalismo è sempre stato quello dell’accumulazione. Le gestioni famigliari, le banche intrallazzone di inizio Novecento, la debolezza della Borsa da sempre hanno imposto un limite alla crescita dei nostri grandi gruppi industriali privati, nonostante l’abbondanza di intelligenze e risorse umane. Mediobanca per molti aspetti e l’Iri per altri sono stati la via concreta per superare i limiti del nostro capitalismo e per favorire il grande sviluppo del secondo dopoguerra. La liquidazione di Mediobanca come banca regista della grande industria italiana privata (scelta in gran parte determinata dagli orientamenti della Fiat) ha lasciato un vuoto. La ottima gestione, però senza più la missione di sostenere investimenti a medio lungo termine, di Piazzetta Cuccia da parte di Alberto Nagel non c’entra più con la storia passata. Grandi imprenditori come Leonardo Del Vecchio e Alberto Bombassei hanno cercato di puntare a ricreare una finanza che aiutasse gli investimenti sul medio-lungo periodo, ma finora i diversi tentativi non hanno avuto successo.

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