
Le magnifiche morti e progressiste
Nell’immaginario collettivo del “secolo breve”, come l’ha impropriamente definito lo storico comunista inglese Eric Hobsbawm, la Grande Guerra è per antonomasia la Prima guerra mondiale, tanto è vero che continuano ad apparire testimonianze e ricostruzioni storico di quel grande e tremendo evento. L’ultima opera sull’argomento è dovuta alla penna dello studioso inglese Martin Gilbert che nel 1994 ha pubblicato “La grande storia della Prima Guerra mondiale” (edizione italiana Mondadori, Milano 1998, pp.698). Il secondo capitolo del libro ci riporta alla realtà cocente di questi giorni. “L’erede al trono degli Asburgo fu assassinato nell’anniversario della sconfitta che i Turchi avevano inflitto ai serbi nel 1349 nella battaglia del Kossovo, il cui umiliante ricordo era impresso nella memoria collettiva serba. Recarsi in visita ufficiale a Sarayevo il 28 giugno 1914, giorno di solenni celebrazioni e festa nazionale serba, era stata una scelta quanto mai inopportuna. Fra gli spettatori che si assiepavano ai bordi delle strade per assistere al passaggio dell’arciduca e della consorte, diretti in automobile verso la residenza del governatore, c’era un serbo-bosniaco diciannovenne, Gavrilov Princip, armato di pistola. Era uno dei sei giovani cospiratori appostati lungo il tragitto, che agognavano il momento in cui la Bosnia si sarebbe liberata dal giogo austriaco per diventare parte integrante della Serbia”. Il nazionalismo serbo apre le vicende del secolo e le chiude proprio in questi giorni, nella contrapposizione tra la piccola nazione balcanica e “il resto del mondo”. Nella prospettiva che il tempo trascorso ci offre (più di ottant’anni) la visione dei motivi materiali e anche ideali che provocarono “l’inutile strage” assume contorni sempre più sfumati e sembra indicarci come la storia, a volte, sia priva di significati, se non quelli creati dalla malvagità umana. Gilbert, al termine del suo libro ci ricorda che gli imperi centrali ebbero 3 milioni e 500mila morti sui campi di battaglia e le potenze alleate che vinsero la guerra ne ebbero 5 milioni e 100mila. La statistica ci dice che ogni giorno morirono in media 5mila e 600 soldati. Una guerra dei grandi numeri non poteva che essere lo sbocco di una serie di ambizioni nazionali e imperiali che cozzavano tra di loro in una maniera ineludibile.
Il destino di tutta un’epoca apertasi con la celebrazione delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, così come viene cantata da eventi teatrali quali il ballo Excelsior del 1881, magnificata da un mondo come quello dell’’Esposizione universale del 1900, pur rivelando queste ambizioni contrapposte, era fondato su un’idea unitaria dello sviluppo umano.
Il positivismo dei filosofi si fondeva allora coi residuati dell’idealismo romantico e così, interessi materiali legati allo sviluppo dell’industria meccanica (i fabbricanti di cannoni erano in prima linea) e le avanguardie artistiche, quali il futurismo, si univano nel creare un’atmosfera che nella guerra vedeva una rivoluzione necessaria per creare il Progresso. Loro creazione furono anche altre rivoluzioni più propriamente critiche, quale fu ad esempio in Russia dopo il 1917 il comunismo di guerra e in Italia, il fascismo, che rivendicava la vittoria tradita sui tavoli della pace.
L’opera di Martin Gilbert ci squaderna i grandi fronti di guerra e delle battaglie, a Verdun, sull’Isonzo, a Gallipoli, in Galizia e sui mari, dove i sommergibili silenziosi falciavano ecatombi di navi e di uomini. “L’Europa è folle. Il mondo è folle” titola uno dei suoi capitoli. Il lettore odierno – che da ragazzo ha orecchiato da alcuni reduci superstiti da anni di trincea i racconti degli assalti alla baionetta, degli attacchi coi gas asfissianti, delle decimazioni dopo Caporetto, delle maledizioni contro i generali e i capi politici che quella guerra avevano voluto – non può che meditare, pensando anche all’altra guerra (quella ideologica che seguirà dopo 20 anni con un furore umano decuplicato), come con una “guerra mondiale” inizia la strumentalizzazione totale dell’uomo. La persona umana diventa, secondo la massima popolare, “carne da cannone”, dove anche l’identità dei caduti svanisce nella formula dei dispersi che Gilbert descrive con maestria come “esseri che uno scoppio dismembra”, i cui resti bruciacchiati a battaglia finita (così mi raccontava un reduce) con un telo da tenda venivano raccolti a mucchi e sepolti insieme, indistinti. Nessuno meglio di Ezra Pound nel poema “H.S. Mauberly” ha descritto lo spirito di questi combattenti: “Operai, artigiani, contadini, borghesi, poeti, ecc. che la mitraglia e la granata ha disfatto”.
Anche Apollinaire nei suoi “Calligrammes” (1914-1917) canterà i senegalesi gettati nella battaglia a Verdun, uomini che Gilbert descrive costretti a combattere con le mitragliatrici puntate alla schiena per impedire loro di indietreggiare. Ma sarebbe improprio non considerare lo spirito di servizio al proprio paese che molti soldati sentivano di compiere e di cui tutta la letteratura di quella guerra ha dato testimonianza. Gilbert ci propone tra l’altro, traendoli dai diari, i pensieri e i racconti del grande filosofo Ludwig Wittgenstein, 25enne, tornato da Cambridge dove insegnava, per arruolarsi come artigliere nell’esercito austriaco e per guadagnarsi, durante tutta la guerra, sul fronte russo e su quello italiano, le maggiori onoreficenze militari. Ma nel 1915 egli era già pessimista sull’esito della guerra per gli imperi centrali. Così Wittgenstein, ebreo, scriveva: “Oggi più che mai percepisco la tristissima situazione in cui si trova la nostra razza, quella tedesca. Perché mi appare chiaro che noi non ce la faremo contro l’Inghilterra. Gli inglesi – la miglior razza del mondo – non possono perdere. Noi, invece, possiamo perdere e perderemo, se non quest’anno l’anno prossimo. Il pensiero che la nostra razza verrà sconfitta mi deprime terribilmente perché io sono totalmente tedesco”. Questa grande ricostruzione storica ha il pregio di presentare le grandi battaglie e le sofferenze indicibili delle masse di soldati, i singoli racconti di uomini semplici e di molti poeti che contrastano, con il loro sacrificio e le loro motivazioni, i piani ebbri dei capi militari, sempre intenti a calcolare il numero dei combattenti da gettare nella fornace divoratrice. Il secolo si chiude coi bagliori dei Balcani in fiamme, e la preghiera che sale da molti cuori ricongiunge i morti di oggi a quella strage che non fu “inutile” se la nostra memoria ricorda il valore sacro della vita, di ogni singola vita, e ci induce a guardare avanti, verso il secolo e il millennio, con l’aiuto del Signore, più benigni.
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