
Le chiese bruciate in Egitto sono troppe per essere solo un caso

Gli incendi che continuano a verificarsi dal 14 agosto all’interno dei luoghi di culto della Chiesa copto-ortodossa in Egitto stanno nuovamente portando alla luce le condizioni difficili in cui versa la più grande comunità cristiana del Medio Oriente. Sebbene i funzionari escludano la natura dolosa dei roghi, gli episodi che hanno colpito chiese da Alessandria fino ad Assiut, nell’Alto Egitto, hanno alimentato l’insofferenza e la frustrazione della comunità copta sul sistema di risposta alle emergenze, sui codici di sicurezza antincendio e sulle restrizioni alla costruzione di luoghi di culto.
Il terribile incendio nella chiesa di Abu Seifin
Il rogo che ha sconvolto profondamente la comunità cristiana è quello divampato lo scorso 14 agosto nel complesso che ospita la chiesa di San Mercurio di Cesarea (indicato sui media con il nome di Abu Seifin) a Imbaba, quartiere operaio densamente popolato del governatorato di Giza al Cairo. Ben 41 persone sono decedute tra cui 19 bambini, mentre sedici sono rimaste ferite, inclusi quattro agenti di polizia e residenti coinvolti nei soccorsi. Le autorità sanitarie hanno affermato che le persone sono morte a causa dei fumi e della calca dovuta a una fuga precipitosa di centinaia di persone dall’interno dell’edificio.
Le immagini dell’incendio hanno fatto il giro del mondo e riportato alla mente gli attentati rivendicati dallo Stato islamico del 9 aprile del 2017, quando due attentatori suicidi si fecero esplodere durante la messa per la Domenica delle palme nella chiesa di San Giorgio a Tanta, nel nord dell’Egitto e nella cattedrale di San Marco, ad Alessandria d’Egitto, sede ufficiale del patriarcato copto-ortodosso, uccidendo almeno 45 persone.
Secondo le autorità egiziane, l’incendio di Imbaba si sarebbe sviluppato a seguito di un cortocircuito nell’impianto di condizionamento in una stanza al secondo piano del vasto complesso che ospitava, oltre alla chiesa anche altri servizi parrocchiali, tra cui un asilo nido.
Il rogo nella chiesa Anba Bishoy
Nei giorni immediatamente successivi alla tragedia, il patriarca copto-ortodosso Tawadros II ha affermato che la chiesa, come molte altre, era troppo piccola per il numero di fedeli che la frequentavano, puntando il dito contro le restrizioni del governo che, nonostante l’impegno profuso dal presidente Abdel Fattah al Sisi, ostacolano la costruzione di nuove chiese. Dopo l’incendio di Imbaba sono stati denunciati altri roghi di varia entità che sarebbero stati provocati da cortocircuiti e da sistemi di sicurezza inesistenti. Il 16 agosto, il giorno dopo la tragedia del Cairo, un incendio che ha intossicato una persona si è sviluppato nella chiesa Anba Bishoy nel governatorato di Minya, nell’Alto Egitto.
La polizia ha affermato che l’incendio sarebbe stato provocato da un sovraccarico di un generatore elettrico e non ha provocato vittime perché è rimasto contenuto all’interno di una sala chiusa e inutilizzata senza estendersi all’interno dell’edificio, come avvenuto invece per la tragedia di Imbaba.
L’Alto Egitto è una delle aree del paese nordafricano dove i cristiani sono continuamente bersaglio di attacchi terroristici e assalti di estremisti ai luoghi di culto. Uno dei più gravi risale al 2017 quando una banda di uomini armati prese d’assalto un autobus con a bordo un gruppo di pellegrini diretti verso il monastero di San Samuele il confessore. Nell’attacco, poi rivendicato dallo Stato islamico, persero la vita 7 persone.
I sospetti degli attivisti copti
Dopo l’incendio di Minya, la comunità copta ha segnalato un altro rogo il 21 agosto, festa dell’Assunzione della Vergine per i copto-ortodossi; un altro rogo è divampato in un monastero della provincia di Assiut, nel centro dell’Egitto, a circa 300 chilometri dal Cairo. L’incendio non avrebbe provocato feriti. Infine, lo scorso 22 agosto, una persona è rimasta ferita in un rogo divampato nella chiesa di Maria, situata nel distretto di Al Montazah, nella parte orientale del governatorato di Alessandria. Anche in questo caso, le autorità hanno attribuito l’incendio a un cortocircuito elettrico nell’impianto di condizionamento centrale della chiesa.
L’ondata di incendi ha riguardato anche alcuni edifici civili, come un centro commerciale di Alessandria e un ospedale al Cairo (senza registrare vittime), tuttavia la quasi totalità ha colpito luoghi di culto cristiani. Diversi politici egiziani hanno commentato i fatti appoggiando l’idea che il problema andrebbe ricercato nella mancata manutenzione degli impianti elettrici fatiscenti, nell’impiego di materiali infiammabili, in particolare tele dipinte, tessuti e legno.
Tuttavia, diversi attivisti copti, hanno denunciato sia in interviste che sui social network la carenza della tesi del banale circuito elettrico, osservando, come affermato in dichiarazioni rese al quotidiano saudita Arab News dall’analista e attivista copto Magdy Kalil, che «per 50 anni, centinaia di chiese sono state bruciate in Egitto e non c’è stata una sola indagine seria, ma al contrario risposte preconfenziate che parlavano di un cortocircuito o dell’aria condizionata». Allo stesso tempo, secondo Kalil, in centinaia di moschee in tutto il paese in cui l’aria condizionata funziona sette giorni su sette, non si è mai verificato un incendio dovuto a cortocircuiti o al malfunzionamento dell’aria condizionata.
L’ipotesi del terrorismo anticristiano
La serie di roghi derubricati a meri incidenti ha alimentato anche congetture sulla natura dolosa dei fatti che stanno colpendo gli edifici di culto della comunità cristiana. Il quotidiano legato al Qatar (uno dei rivali regionali dell’Egitto insieme alla Turchia) Al Arabi al Jadeed ha citato fonti della sicurezza egiziana a sostegno di tale tesi. Secondo il quotidiano, le agenzie di intelligence egiziane sarebbero in «uno stato di massima allerta» alla ricerca di «un gruppo terroristico presumibilmente responsabile dei recenti attacchi sistematici contro le chiese copte ortodosse in tutto l’Egitto». Le fonti citate dal quotidiano hanno fatto notare come dalle indagini sarebbero emerse somiglianze nei presunti cortocircuiti che hanno poi innescato i roghi.
La manutenzione e la realizzazione di chiese cristiane è da sempre un tema sensibile per l’opinione pubblica in un paese a maggioranza musulmana come l’Egitto che ciclicamente assiste a ondate di radicalismo in cui la comunità copto-ortodossa è la prima a farne le spese. In Egitto, i permessi per costruire o rinnovare chiese richiedevano l’approvazione presidenziale diretta fino al 2016, rendendo praticamente impossibile costruire o rinnovare edifici di culto. A seguito della mancanza di luoghi di culto e di preghiera, la vasta comunità cristiana utilizza da decenni edifici commerciali o industriali come chiese. La stessa chiesa di Abu Sefein si trova all’interno di un condominio di quattro piani in un’area sovraffollata come il quartiere di Imbaba. L’area riservata al culto riunisce di fatto alcuni appartamenti per un totale di 120 metri quadrati per ospitare centinaia di persone. La chiesa è riconoscibile come tale solo da un’insegna sopra la porta d’ingresso e da una croce di ferro sul tetto.
La legge di Al Sisi per restaurare le chiese
Il presidente Abdel Fattah al Sisi è stato il primo capo di Stato egiziano a fare una serie di passi in avanti per ridurre la discriminazione dei copti-ortodossi anche per “premiarli” del loro sostegno contro il governo del presidente Mohammed Morsi nel 2013. Proprio a causa di questo sostegno i cristiani furono vittima delle rappresaglie degli islamisti che nell’agosto del 2013 attaccarono quasi 70 chiese e case di sacerdoti in tutto il paese. Il 7 gennaio 2015, Al Sisi è stato il primo presidente egiziano a prendere parte alla messa di Natale nella cattedrale copta-ortodossa di San Marco ad Abassiya, al Cairo, in segnale di unione tra cristiani e musulmani.
Ex capi di Stato egiziani hanno visitato la cattedrale, tra cui Gamal Abd el Nasser e il presidente ad interim Adly Mansour, ma Al Sisi è stato il primo a partecipare ad una messa. Su pressione di Al Sisi nel 2016 il governo egiziano ha introdotto una nuova legge per disciplinare la costruzione delle chiese, che ha spostato il processo decisionale dal presidente ai governatori locali. Tuttavia la legge, che si applica solo ai luoghi di culto cristiani, ha requisiti rigorosi affinché le chiese possano beneficiare dei permessi e non è prevista alcuna procedura di ricorso nei casi di permessi respinti.
Inoltre, le autorità locali spesso si rifiutano di concedere i permessi di costruzione per nuove chiese, temendo le proteste degli ultraconservatori musulmani, in particolare i salafiti molto diffusi nell’Alto Egitto. Dall’introduzione della nuova legge nel 2016, le chiese informali esistenti hanno richiesto circa 5.400 permessi di costruzione per legittimare i propri luoghi di culto. Finora sono stati rilasciati quasi 2.400 permessi, che rappresentano solo il 45 per cento delle domande.
Foto Ansa
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