
Le ali ai piedi
La sua non è la consueta storia dell’imprenditore che si è fatto da sé. Non ha incominciato l’avventura muovendo dalla bottega del suo borgo natio. Lui, Andrea Tomat, ha messo prima di tutto la testa sui libri, attratto dal fascino della conoscenza. La laurea in quel di Ca’ Foscari a Venezia in economia aziendale ha significato l’ultimo tassello, fondamentale, prima dell’ingresso nel mondo del lavoro. Che avviene nel 1983, in una multinazionale americana, la Eaton. Esperienza sana, anche difficile, dove verifica sul campo cosa significhi fare il manager. Ci sta per quattro anni, tra Belluno, Strasburgo e Torino. Poi, la chiamata che gli cambia la vita. «Mi contatta la Lotto, storico marchio del mondo sportivo italiano. Per il sottoscritto, grande appassionato e attivo in molti sport, si tratta di una notevole opportunità umana e professionale», ricorda. La Lotto era stata fondata nel 1973 dai tre fratelli Caberlotto. Che, curiosamente, utilizzarono le prime lettere del cognome per nominare una marca di scarponi da sci, appunto la Caber, che cedettero alla statunitense Spalding. Con la seconda parte invece diedero il via ad un’impresa che si misurava in principio con il mercato delle scarpe per il tennis.
A breve gli orizzonti si allargarono con la produzione nel calcio, nel basket, nella pallavolo, nell’atletica leggera, fino ad arrivare all’abbigliamento sportivo. «Come licensing manager mi occupavo delle licenze d’uso del marchio. Nel 1989 mi viene affidata la responsabilità del marketing, legando l’immagine del marchio Lotto ai protagonisti della scena sportiva internazionale, come il calciatore Ruud Gullit e i fuoriclasse del tennis Boris Becker e Martina Navratilova». Un altro passaggio chiave si deve far risalire al 1993, quando è nominato amministratore delegato di Stonefly, un’azienda del gruppo Lotto che produce scarpe, casual, ma che non gode di buona salute, per ricorrere a un garbato eufemismo. Tomat non perde altro tempo, riposiziona il marchio nella direzione dell’articolo rivolto al comfort. «Dovevamo trovare per Stonefly una propria identità. Ho girato molto per l’Europa e ciò che vedevo mi ha convinto che bisognasse sterzare radicalmente, cioè puntare su un prodotto più comodo, confortevole. Che mutuasse dallo sport quei contenuti che potessero risultare efficaci nel quotidiano», spiega Tomat.
Strategia azzeccata. Stonefly riprendeva così a camminare. Mentre frenava assai Lotto. Tomat, che capisce l’insidia per la realtà tornata a riveder le stelle, nel 1998, con un’operazione coraggiosa, sgancia totalmente Stonefly dall’orbita Lotto, grazie anche alla fiducia di istituti bancari e di soci che coinvolge nel nuovo corso. Una sfida personale per Tomat che a quel punto compie il passo verso il ruolo di imprenditore, tanto diffuso e fecondo di riscontri a nordest. Ma i colpi ad effetto non sono ancora finiti. Come si accennava, Lotto pareva proprio aver esaurita la sua spinta propulsiva. Il settore dell’articolo sportivo in senso stretto conosceva la lunga stagione del declino. Siccome si trattava di Lotto, un’azienda che aveva scommesso sul suo talento una decina d’anni prima, Tomat decide di mettere in atto un’altra operazione per salvarla e che intanto era finita in concordato preventivo.
«Il territorio non poteva perdere definitivamente una realtà così importante come Lotto. Ne andava anche del nostro senso di appartenenza. E pure su quello ho giocato le mie carte per riuscire nel tentativo di dare nuova linfa all’azienda». Detto, fatto. Nel giugno del 1999 l’azienda passa di mano, rilevata da un gruppo di imprenditori locali, già impegnato nel settore dello sport, con alla testa Andrea Tomat, in qualità di presidente e direttore generale della società, nel frattempo ribattezzata Lotto sport Italia spa. «Non poteva essere un passaggio semplice e soprattutto indolore. Però il desiderio era proprio quello di rilanciare un nome che era certo un patrimonio. Riconoscibile e riconosciuto. Dovevamo ripartire dalle persone. Dall’ingegno. Dalla creatività che rappresenta un po’ il sale dell’imprenditoria italiana. E dall’etica della responsabilità molto forte da queste parti».
L’etica della responsabilità
Tomat insiste su questo punto per spiegare le ragioni del successo di molte imprese che puntellano il Nor-dest. «Non bisogna mai scordare che questi sono territori che hanno conosciuto dolori, ferite, traumi. Non ultimo quello dell’emigrazione. Tuttavia, mai è emerso il sentimento della rassegnazione, piuttosto quello orgoglioso e puntuale della rivalsa. Di ripartire sempre. Di dar vita a qualcosa che lasciasse un segno positivo, in primo luogo per la famiglia, per i figli che dovevano proseguire nella fatica e nella crescita», chiarisce. Seppur diventato imprenditore dopo esperienze di stampo manageriale e non per averne ereditata alcuna dai genitori, il Tomat è oltremodo sensibile al tema della piccola e media impresa che agisce, suda e tocca con mano il made in Italy di qualità che da lì nasce, anche grazie alla carica di presidente dell’Unione degli industriali della provincia di Treviso. Riscatto e scatto, dunque. Che per le sue due realtà vuol dire star bene in piedi perché stanno bene ai piedi. Con piani di sviluppo chiari e un posizionamento preciso. Per Lotto è stato evidente che non era più possibile lavorare solo nell’area tecnica di prodotto, ma serviva ampliare l’offerta nel segmento del tempo libero.
«Questo ci ha permesso di tornare con forza su mercati complicati ma di grande fascino come Asia e America. L’innovazione italiana e il design italiano continuano ad essere ingredienti assolutamente appetibili». E pure su Stonefly i numeri sembrano dare ragione al gioco di squadra. «Mi piace il richiamo al gioco di squadra per spiegare la perfomance del marchio. È impossibile raggiungere numeri ambiziosi senza che tutto il team interpreti la competizione a dovere. Ma per essere in forma l’imprenditore deve riuscire a trasmettere al gruppo entusiasmo e farlo sentire fattore centrale dello sviluppo», motiva. L’ennesima prova che pure la pmi ha tutto per riuscire competitiva e perciò vincente. «Basta con i luoghi comuni che le piccole imprese non possono innovare. Stupidaggini. L’Italia più viva dimostra proprio il contrario. Certo che il mondo sta cambiando, ma c’è chi ha interpretato al meglio quei segnali. Si può insomma fare ancora impresa. E farla bene».
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