
L’austerity logora chi non la fa (bene)

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Difficile prevedere che cosa decideranno i ministri delle Finanze europei convocati il 15 giugno per discutere delle sorti del debito greco. Ma una cosa è certa: nella contrapposizione tra la Germania e il Fondo monetario internazionale su come affrontare la questione, l’Italia dovrebbe stare con Angela Merkel che, per ora, si oppone al taglio netto del debito perché gli unici creditori a subirne le conseguenze sarebbero i paesi europei, compreso il nostro. Ecco perché la cancelliera propone un approccio graduale, a cominciare da un ulteriore allungamento delle scadenze». Parla Veronica De Romanis, l’economista che con il suo libro L’austerità fa crescere (edito da Marsilio) cerca di ribaltare un luogo comune spiegando che i governi dell’area euro possono promettere una gestione accurata e responsabile delle risorse pubbliche e restare popolari. «Il presidente francese Emmanuel Macron lo ha capito e ha vinto le elezioni nonostante in campagna elettorale abbia detto chiaramente che taglierà 60 miliardi di euro di spesa pubblica. Il nostro governo, chiunque ci sia alla guida, non deve temere di allinearsi a quest’approccio».
Il “modello Merkel” secondo De Romanis fa proseliti in Europa, chi lo avrebbe mai detto? E la Francia non è l’unico esempio. Politiche di rigore non hanno impedito ad altri leader di vincere – si pensi alla Lettonia con Valdis Dombrovskis (eletto tre volte) e al Regno Unito con David Cameron (eletto due volte) – o di ottenere la maggioranza dei voti – com’è successo in Portogallo a Pedro Passos Coelho e in Spagna a Mariano Rajoy. Quest’ultimo, in particolare, è arrivato primo in ben due tornate elettorali ed è di nuovo alla guida del paese nonostante continui a dichiarare di voler proseguire con il controllo della spesa pubblica.
Il populismo non paga
E pensare che il termine austerità nella lingua tedesca non esiste, come spiega a Tempi la professoressa De Romanis, che insegna politica economica alla Stanford University di Firenze e alla Luiss di Roma, lo stesso concetto in Germania è espresso con vocaboli come responsabilità nei confronti delle future generazioni – che significa non lasciare loro un debito da pagare – e solidarietà nei confronti delle fasce più deboli. Nel libro l’economista ricorre alle parole del presidente della Bce, Mario Draghi, secondo il quale «non tutti i programmi di austerità sortiscono lo stesso effetto sulla crescita. Molto dipende dal modo con cui vengono realizzati». Esiste, dunque, un’austerità “buona”, che ha un impatto espansivo e prevede meno tasse, con una ricomposizione della spesa verso investimenti e infrastrutture, ed è sostenuta da un piano di riforme strutturali. E c’è un’austerità “cattiva” che, invece, è recessiva perché aumenta (molto) le tasse e riduce (poco) la spesa corrente (per intenderci, il comparto che finanzia la macchina dello Stato e va dagli stipendi dei dipendenti pubblici ai costi per le auto blu).
Qualche esempio? I paesi che negli ultimi cinque anni hanno messo in atto politiche di austerità “buona” e hanno tagliato le spese improduttive, nel biennio 2015-2016 sono cresciuti: l’Inghilterra ha superato il 2 per cento, la Spagna il 3, l’Irlanda il 5. L’Italia, che ha invece incrementato la spesa nonostante i proclami iniziali del governo Renzi, è ferma allo 0,9 per cento. Non solo. L’austerità “buona” rappresenta il vero antidoto contro i populismi. Ne sa qualcosa Marine Le Pen, sconfitta da Macron proprio su questo terreno. E anche Pablo Iglesias, leader di Podemos, un movimento antisistema che sembrava destinato a dominare la scena politica spagnola assicurando il ritorno a politiche fiscali espansive dopo anni di rigore (100 miliardi di euro di spesa pubblica, questa la sua promessa nella campagna elettorale dello scorso anno), ad oggi registra un forte calo di consensi: gli spagnoli non gli hanno creduto.
Gli errori di Atene
Ma come mai allora l’austerità in Grecia non ha funzionato? La Grecia è stata salvata tre volte e, nonostante ciò, siamo arrivati alla difficile situazione di oggi. E qui dobbiamo entrare un po’ più nello specifico per comprendere le ragioni delle diverse posizioni tra la Germania e il Fmi. Quest’ultimo propone di applicare un haircut, cioè un taglio secco del valore nominale del debito ellenico. «In questo caso, il Fmi sarebbe il primo a essere rimborsato perché beneficia dello status di creditore privilegiato», osserva De Romanis. «Il debito ellenico in mano ai creditori europei, ossia l’80 per cento del totale, invece, subirebbe una riduzione. Per i contribuenti europei vorrebbe dire affrontare una perdita netta, da coprire in futuro con minori spese o maggiori tasse. Ecco perché la Merkel si oppone a questa soluzione che pone il governo tedesco in una posizione molto difficile di fronte al Parlamento e agli elettori. E questo dovrebbe valere anche per l’Italia che ha partecipato con circa 60 miliardi di euro al pacchetto di 300 miliardi per il salvataggio di diversi paesi, inclusa la Grecia».
Di tutto ciò si parla molto poco, mentre l’attenzione mediatica è giustamente concentrata sulle condizioni in cui stanno vivendo i greci. «Queste condizioni, però, sono il risultato di scelte di politica economica fatte dal governo di Tsipras che, ad esempio, non ha toccato la classe degli armatori e ha aumentato le spese per la difesa tagliandole in altri comparti. Insomma, di fatto ha concentrato i sacrifici sulla fasce più deboli». Il premier greco, dunque, non è stato capace di mettere in atto un’austerità “buona”? «Quello che non si dice mai è che i governi chiamati a mettere in sicurezza i conti, sono autonomi nello scegliere gli interventi. Ma è chiaro che è tutto più facile quando un esecutivo gode di un mandato politico forte poiché è inevitabile che un’azione di rigore si scontri con centri di potere organizzato», replica l’economista. «In ogni caso, quando un paese come la Grecia ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità e arriva al punto che i mercati non gli fanno più credito, l’austerità è una strada obbligata, non un’opzione. L’unica soluzione diventa quella di chiedere aiuto ai partner europei, proprio come fece l’allora primo ministro di Atene Papandreou nell’ottobre del 2009, dopo aver ammesso pubblicamente di aver truccato i conti. La Grecia ha così ottenuto l’aiuto di tutti, incluso quello dei paesi più poveri come l’Estonia e la Lituania».
Se il deficit non basta mai
Al di là del caso ellenico, il tentativo compiuto da De Romanis con il suo libro, che dovrebbe far riflettere in un momento in cui in Italia tira aria di elezioni anticipate, è di smontare una per una le obiezioni che il termine austerità porta con sé. «A questo proposito – conclude l’economista – va precisato che negli ultimi tre anni, di austerità in Italia non c’è stata traccia. La politica fiscale è sempre stata espansiva, il debito non ha fatto altro che aumentare. Peraltro, l’Italia è il paese che ha ottenuto da Bruxelles maggiore flessibilità di bilancio, ossia spesa pubblica aggiuntiva rispetto agli obiettivi concordati in sede europea da finanziare in disavanzo: circa 20 miliardi di euro che però sono stati utilizzati prevalentemente per la spesa corrente, con un impatto limitato sulla crescita».
Foto Ansa
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