
«Lascio il New York Times. I colleghi mi bullizzano perché non sono allineata»

Nei giorni scorsi abbiamo scritto in diverse occasioni (e ne ha scritto anche il Wall Street Journal di quanto si sia appesantito il clima settario che regna nelle redazioni di certi giornali americani cosiddetti “liberal”, soprattutto in conseguenza della deriva intollerante imboccata dalle proteste contro il razzismo e per la giustizia razziale, al grido di “Black Lives Matter”.
Dei clamorosi casi di James Bennet e di Stan Wischnowski abbiamo già parlato in questo articolo. Il primo costretto a dimettersi da responsabile della sezione opinioni del New York Times per aver acconsentito a pubblicare un commento del senatore repubblicano Tom Cotton favorevole all’impiego dell’esercito per sedare le rivolte violente scoppiate dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd per mano di un poliziotto bianco. Il secondo spinto a lasciare il posto da caporedattore al Philadelphia Inquirer per aver scritto in un titolo che oltre alle vite dei neri «anche gli edifici contano» (Buildings Matter, Too).
Ora pare che ci siano novità anche sulla collaborazione tra Andrew Sullivan e il New York magazine. Come scrive The Week, l’apprezzato commentatore, conservatore ma non trumpiano, omosessuale ma polemico verso il mainstream arcobaleno e verso il politicamente corretto in generale, «ha lasciato intendere che se ne va per divergenze ideologiche». Tra queste divergenze sarà compreso anche il divieto di scrivere a proposito delle manifestazioni di Black Lives Matter? Lo sapremo presto. Su Twitter lo stesso Sullivan ha annunciato che spiegherà tutto venerdì nella sua «ultima rubrica».
The underlying reasons for the split are pretty self-evident, and I’ll be discussing the broader questions involved in my last column this Friday.
— Andrew Sullivan (@sullydish) July 14, 2020
Nel frattempo bisogna però tornare al New York Times, perché lunedì scorso dal quotidiano più famoso del mondo si è dimessa anche Bari Weiss, giornalista e commentatrice di idee “centriste” assunta tre anni fa dal giornale di riferimento dei democratici americani proprio per “allargare le vedute” in seguito alla vittoria di Donald Trump. Vittoria che il New York Times non era stato in grado nemmeno lontanamente di prevedere, proprio a causa della separazione della sua redazione dalla realtà del paese. Pubblichiamo di seguito in una nostra traduzione la lettera di dimissioni scritta dalla Weiss all’editore Arthur Gregg Sulzberger, una perfetta testimonianza “dall’interno” del settarismo di cui sopra.
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Caro A.G.,
È con tristezza che le scrivo per informarla delle mie dimissioni dal New York Times.
Tre anni fa sono entrata in questo giornale con gratitudine e ottimismo. Venivo assunta con l’obiettivo di portare voci che altrimenti non sarebbero apparse sulle vostre pagine: autori esordienti, centristi, conservatori e altri che istintivamente non avrebbero considerato il Times come la loro casa. La ragione di questo tentativo era chiara: l’incapacità di prevedere il risultato del voto del 2016 da parte del giornale significava che quest’ultimo non riusciva più a comprendere il paese di cui parlava. [Il direttore esecutivo] Dean Baquet e altri lo hanno ammesso in varie occasioni. La priorità per la sezione opinioni era rimediare a questa lacuna critica.
Ero onorata di essere parte di questo tentativo, guidato da James Bennet. Sono fiera del mio lavoro come autrice e come redattrice. Tra le personalità che ho contribuito a portare sulle nostre pagine figurano il dissidente venezuelano Wuilly Arteaga, la campionessa di scacchi iraniana Dorsa Derakhshani e il cristiano pro democrazia di Hong Kong Derek Lam. Ancora: Ayaan Hirsi Ali, Masih Alinejad, Zaina Arafat, Elna Baker, Rachael Denhollander, Matti Friedman, Nick Gillespie, Heather Heying, Randall Kennedy, Julius Krein, Monica Lewinsky, Glenn Loury, Jesse Singal, Ali Soufan, Chloe Valdary, Thomas Chatterton Williams, Wesley Yang e molti altri.
Ma le lezioni che dovevano seguire quell’elezione – riguardo all’importanza di comprendere gli altri americani, alla necessità di resistere al tribalismo e alla centralità del libero scambio di idee per una società democratica – non sono state imparate. Al contrario, nella stampa, ma forse specialmente in questo giornale, è emerso un nuovo pensiero dominante: l’idea che la verità non è un processo di scoperta collettiva, bensì un’ortodossia già nota a pochi illuminati il cui mestiere è quello di informare tutti gli altri.
Pur non comparendo nel colophon del New York Times, Twitter è diventato in ultima analisi il suo vero direttore. Poiché l’etica e il costume di quella piattaforma sono diventati quelli del giornale, il giornale stesso è diventato sempre più una specie di spazio performativo. Le storie vengono selezionate e raccontate in modo da soddisfare la più ristretta delle platee, anziché consentire a un pubblico curioso di leggere cose sul mondo e poi trarre le proprie conclusioni. Mi è stato sempre insegnato che i giornalisti hanno il compito di stendere la prima bozza della storia. Adesso, la storia stessa non è che qualcosa di effimero che va modellato secondo le necessità di una narrazione predeterminata.
Le mie incursioni nelle “idee sbagliate” [Wrongthink] mi hanno reso oggetto di bullismo costante da parte dei colleghi che non condividono le mie idee. Mi hanno chiamata nazista e razzista. Ho imparato a scrollarmi di dosso i loro commenti quando stavo «scrivendo un altro pezzo sugli ebrei». Diversi colleghi sono stati assillati da altri colleghi perché troppo gentili verso di me. Il mio lavoro e il mio ruolo vengono apertamente sminuiti nei canali Slack della società dove intervengono regolarmente i redattori. Qui alcuni colleghi insistono che io debba essere estirpata da questa azienda affinché la stessa possa divenire davvero “inclusiva”, altri invece aggiungono un’ascia emoji accanto al mio nome nei loro post. Ancora, altri impiegati del New York Times mi insultano pubblicamente su Twitter dandomi della bugiarda e ottusa, certi che questa persecuzione nei miei confronti non sarà punita. Non vengono mai puniti.
Esistono parole precise per designare tutto ciò: discriminazione illegale, ambiente di lavoro ostile, dimissioni costruttive. Non sono un’esperta legale. Ma so che sono cose sbagliate.
Non capisco come lei possa avere permesso a questi atteggiamenti di penetrare nella sua azienda sotto gli occhi dell’intero staff del giornale e del pubblico. E non riesco a conciliare il fatto che lei e altri vertici del Times siate rimasti immobili mentre mi elogiavate in privato per il mio coraggio. Presentarsi al lavoro come centrista in un giornale americano non dovrebbe richiedere eroismo.
Una parte di me spera di poter dire che la mia è stata un’esperienza isolata. Ma la verità è che la curiosità intellettuale – per non dire dell’assumersi dei rischi – oggi al Times è una cosa negativa. Perché pubblicare cose che sfidino i nostri lettori o scrivere cose audaci sapendo già che saranno sottoposte alla procedura anestetica per renderle ideologicamente kosher, quando possiamo garantirci una sicurezza lavorativa (e dei clic) pubblicando il nostro quattromillesimo editoriale su quanto Donald Trump rappresenti un pericolo per il paese e per il mondo? Così l’autocensura è diventata la norma.
Le regole residue al Times vengono applicate con estrema selettività. Se l’ideologia di una persona è in linea con la nuova ortodossia, quella persona e il suo lavoro non subiranno verifiche. Tutti gli altri vivranno nel terrore del Thunderdome digitale. L’odio online è tollerato fintantoché colpisce gli obiettivi giusti.
Commenti che soltanto due anni fa sarebbero stati facilmente ospitati, ora metterebbero un redattore o un autore in guai seri, se non alla porta. Se un pezzo può scatenare reazioni negative all’interno del giornale o sui social media, il redattore o l’autore evitano di proporlo.
Se sono abbastanza forti da proporlo, vengono subito spinti su un terreno più sicuro. E se ogni tanto ottengono la pubblicazione di un pezzo che non promuove esplicitamente campagne progressiste, questo avviene soltanto dopo che ogni riga è stata attentamente ritoccata, contrattata e puntualizzata.
Ci sono voluti due giorni e due posti di lavoro per dire che il commento di Tom Cotton «non era all’altezza dei nostri standard». Abbiamo aggiunto una nota redazionale a un articolo di viaggio su Jaffa poco dopo la sua pubblicazione perché «ha mancato di toccare aspetti importanti della costituzione e della storia di Jaffa». Ma ancora non ne è stata aggiunta alcuna all’ossequiosa intervista di Cheryl Strayed alla scrittrice Alice Walker, un’orgogliosa antisemita che crede negli illuminati rettiliani.
Il giornale di riferimento [paper of record] è sempre più il riferimento di coloro che vivono su una lontana galassia, i cui interessi non appartengono affatto alle vite della maggioranza delle persone. Si tratta di una galassia dove, solo per fare qualche esempio recente, il programma spaziale sovietico viene elogiato per la sua «diversità», dove il doxxing di ragazzi adolescenti viene condonato se fatto in nome della giustizia, dove tra i peggiori sistemi di caste della storia dell’umanità, accanto alla Germania nazista, figurano gli Stati Uniti.
Ancora oggi confido nel fatto che la maggior parte delle persone al Times non abbia queste idee. Tuttavia è intimidita da chi le ha. Perché? Forse perché ritengono che lo scopo ultimo sia giusto. Forse perché credono che avranno protezione se si limiteranno ad annuire mentre la moneta del nostro regno – il linguaggio – viene degradata al servizio di una lunga lista in continua evoluzione di cause giuste. Forse perché ci sono milioni di disoccupati in questo paese e loro si sentono fortunate ad avere ancora un lavoro in un settore in contrazione.
O forse è perché sanno che oggi difendere un principio nel giornale non attira consensi: equivale ad appendersi un bersaglio sulla schiena. Troppo avvedute per pubblicare su Slack, mi scrivono in privato parlando del “nuovo maccartismo” che ha messo le radici nel giornale di riferimento.
Sono tutti brutti segnali, specialmente per i giovani autori indipendenti e per i redattori particolarmente attenti a quello che devono fare per avanzare nella carriera. Regola uno: esprimi le tue idee a tuo rischio e pericolo. Regola due: non arrischiarti a commissionare un articolo che contraddica la narrazione. Regola tre: mai credere a un direttore o a un editore che ti invita ad andare controcorrente. Alla fine l’editore si piegherà al volere della folla, il direttore sarà licenziato o assegnato ad altra mansione e tu sarai abbandonato.
Per questi giovani autori e redattori, c’è una sola consolazione. Mentre posti come il Times e altre un tempo grandi istituzioni giornalistiche tradiscono i loro standard e perdono di vista i loro princìpi, gli americani hanno ancora fame di notizie corrette, idee vivaci e dibattito onesto. Entro in contatto con queste persone ogni giorno. Qualche anno fa lei disse che «una stampa indipendente non è un ideale liberal o progressista o democratico. È un ideale americano». L’America è un grande paese che merita un grande giornale.
Con tutto questo non nego affatto che alcuni dei giornalisti di maggior talento al mondo lavorino ancora per questo giornale. Lo fanno, cosa che rende questo clima illiberale ancor più straziante. Resterò come sempre una loro lettrice devota. Ma non posso più fare il lavoro per cui sono stata portata qui: il lavoro che Adolph Ochs [proprietario del New York Times dell’epoca] in quella famosa dichiarazione del 1896 descrisse così: «Rendere le colonne del New York Times un forum per la considerazione di tutte le questioni di pubblico rilievo, aprendole alla discussione intelligente da parte di tutte le sfumature dell’opinione».
L’idea di Ochs è una delle migliori in cui mi sia imbattuta. E mi ha sempre confortata la certezza che le idee migliori prevalgono. Ma le idee non possono prevalere da sole. Hanno bisogno di una voce. Hanno bisogno di essere ascoltate. Soprattutto, devono essere sostenute da persone che desiderino viverle.
Cordialmente,
Bari
Foto pxhere.com
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