
L’America soffre di invidia del vaccino, noi no grazie a Scanzi e compagnia cialtrona

«La FOMO è reale», «è come quando tutti gli amici si fidanzano prima di te», «all’inizio dici “oh, sono felice per loro, ma quando tocca a me?”». Gli americani hanno un master in medicalizzare la normalità, almeno quanto in mercificare la malattia: un tempo andava forte usare un termine, “disease mongering”, per definire tale virtù, ovvero per identificare la promozione di una malattia in termini così generici da allargare la platea di chi sente di soffrirne per vendere più farmaci possibile, oppure, più semplicemente, ridefinire un problema o un fenomeno in chiave patologica. Ebbene, negli ultimi tempi, dal New York Times al Washington Post, l’invidia che si prova innanzi ai propri cari e amici vaccinati e l’effetto FOMO (Fear of missing out, la paura di restare esclusi in questo caso dai vaccini) ha conquistato editoriali e articolesse, assumendo i contorni, rassicuranti, di una patologia con un nome e una cura.
«I vaccini? È come se tutti si fidanzassero prima di me»
La signora Fan per esempio, scrive il Nyt, giovane scrittrice di Los Angeles, da qualche tempo soffre a vedere tutta quella gente di Miami su Instagram «senza mascherine che spruzza lo champagne nella bocca di altri», mentre lei da un anno sta chiusa nel suo appartamento senza parrucchiere e senza andare al ristorante, «è come quando tutti gli amici si fidanzano prima di te e tu dici “oh, sono così felice per loro, ma quando arriva il mio turno?».
Anche Juliette Kayyem, 51 anni, docente alla John F. Kennedy School of Government di Harvard, soffre dello stesso “stress pandemico”: invece di aver provato sollievo per aver ricevuto la sua prima dose di vaccino, è entrata in crisi perché suo marito e i suoi studenti non erano ancora stati vaccinati. Il pasticcere Tristan Desbos, 27 anni, che vive a Londra, confessa la stessa agitazione: a differenza sua molti famigliari che vivono in Francia non hanno ricevuto alcuna dose. E poi c’è Massimo Cubeallo, un 28enne che vive a Toronto: ha saputo su Zoom di amici vaccinati negli Stati Uniti e in Inghilterra, ma la gioia per loro si è tramutata in fretta in «ansia e invidia» non sapendo quando verrà verrà il suo turno.
«Tutti saltano la fila come ai concerti»
«Qualcuno deve dirlo per primo», ha denunciato Aaron Foley, 36 anni, scrittore di New York al Washington Post: ogni volta che apre Facebook si trova davanti un nuovo selfie di qualcuno che si è vaccinato, «cominciano a diventare molte le persone nella mia cerchia che stanno ricevendo la loro prima dose». Foley pensa che l’invidia sia scatenata da tutte queste foto sui social, «sta diventando sempre più una gara di resistenza. La cosa più frustrante è che siamo così vicini, eppure così lontani». Michele Parisi, 52 anni, di San Francisco si sente in coda perenne per comprare il biglietto di un concerto, «e tu dici, okay, è una fila di due ore, ma sono felice di aspettare, a patto che si stia in fila ordinati e si rispettino i turni. Ma quando vedo persone saltare la fila, comincio a diventare davvero ansioso e nervoso. Ed è così che sto iniziando a pensare ai vaccini».
Sui giornali il tema delle priorità viene esasperato da chi ritiene che la propria categoria dovrebbe avere un trattamento preferenziale (come l’ex stella del basket Charles Barkley che lo ha rivendicato per i giocatori dell’Nba) o chi si sente in colpa per avere ricevuto il vaccino prima di altri a rischio, magari solo perché era un educatore. Gli psichiatri vanno a nozze con questa sindrome del vaccino irraggiungibile e dell’invidia che cresce come l’erba, e il Wp ne interroga un po’ delle migliori università del paese per capire come si cura.
I consigli dei medici: «Meditare e urlare “io odio questa ingiustizia”»
I professori suggeriscono in primis onestà: riconoscere di essere invidiosi della nonna vaccinata è giusto. Secondo: bisogna realizzare che ogni ago infilato in un braccio altrui concorre all’immunità di gregge, anche alla propria. Terzo: bisogna mangiare bene, fare esercizio fisico, indossare la mascherina e praticare il distanziamento ben sapendo che al momento il vaccino non autorizza nessun vaccinato a rinunciarvi. Quarto: praticare la mudita, forma di meditazione buddista che aiuta a coltivare gioia per il successo e la fortuna degli atri. Quinto: provare l’allenamento emotivo del cervello. Si tratta di scatenare emozioni negative urlando «non sopporto non avere il vaccino, è ingiusto, lo odio, lo odio, lo odio, lo odio» dopo di che passare a una via di mezzo fino ad esprimere solo emozioni positive: «Mi sento grato di essere vivo, sono felice che ci sia un vaccino e sono sicuro che un giorno lo riceverò». Sesto: dicono i luminari che se aspetti che l’acqua inizi a bollire fissando la pentola sul fuoco il tempo non passerà mai, ergo si suggerisce di aiutare gli altri a prenotare i vaccini e sveltire le pratiche, risolvere problemi. Settimo: pensare, tra due anni, a quando ci guarderemo indietro e agire nel presente facendo la cosa giusta, perché in futuro non ci si debba vergognare di noi.
L’invidia del vaccino dopo il disturbo da stress post-Trump
L’Harvard Medical School ha dedicato al tema approfondimenti spiegando che l’attesa della vaccinazione mette alla prova la nostra pazienza, il nostro senso della correttezza, perfino la nostra etica: se i social hanno creato il fenomeno esecrabile eppure comprensibile dei “cacciatori di vaccini”, sciami di persone pronte a raggiungere qualunque ambulatorio in cui possano avanzare dosi, più discutibile e da condannare resta il fenomeno del “turismo vaccinale”, lo sfruttamento della propria ricchezza, della propria posizione, l’affermazione del falso (dichiararsi operatori sanitari etc) per farsi inoculare prima e meglio degli altri, aumentando le discriminazioni tra razze e generazioni.
Al di là delle considerazioni più o meno banali o da Pulitzer, la medicalizzazione di una società già strafatta di antidepressivi e anestetici oltreoceano ha portato all’insorgere di una nuova patologia che ammala solo la società dei sani, col suo bel nome, la sua accettazione sociale, talvolta anche la cura: l’invidia del vaccino, la paura di restarne esclusi. Non sarà suggestiva come il «disturbo da stress post Trump» denunciato dal giornalista della Cnn Jim Acosta a nome dei tanti colleghi entrati nell’era Biden con i postumi di tanta insonnia e nevrosi che, concordava il Nyt, li ha afflitti «dalla notte maledetta in cui Trump è stato eletto», ma almeno non servirà andare a nuove elezioni per guarire, dal momento che «il presidente Biden ha promesso dosi entro la fine del prossimo mese per immunizzare tutti i circa 260 milioni di adulti del paese (…) se non prima». E alla sola idea la signora Fan sopporta meglio la sua invidia, pensa al taglio di capelli che l’aspetta.
E in Italia? Abbiamo Scanzi e la nonna di Fedez
E in Italia? In Italia abbiamo il “caso Andrea Scanzi”, dall’editorialista del Fatto Andrea Scanzi che dopo aver tentato una carriera nel «è solo un virus, ma quale pandemia», ha avuto accesso a una lista di riservisti della Asl di Arezzo, è stato vaccinato con AstraZeneca e se ne è vantato in tv chiedendo pure agli italiani di ringraziarlo in quanto testimonial anti-no vax. E abbiamo, nel polverone di polemiche che ha conquistato social e giornali, Marco Travaglio che lo assolve, «Scanzi è un ipocondriaco terrorizzato dal Covid», ma ha seguito le regole «del mitico generale Figliuolo, che ha raccomandato urbi et orbi da Fazio di iniettare i vaccini eccedenti “a chi passa”».
Abbiamo il caso “nonna di Fedez”, la signora Luciana Violini di anni 90, che ha ricevuto l’anelata iniezione il giorno dopo «le mie stories di critica alla gestione dei vaccini», come sostiene la moglie del rapper Chiara Ferragni, e «solo perché qualcuno ha paura che possa smuovere l’opinione pubblica», «è stata vaccinata solo perché siamo famosi». Poco importa se l’Ats Città di Milano abbia negato, la crociata a colpi di Instagram con Ferragni e Fedez improbabili capipopolo delle vaccinazioni per il popolo prosegue da giorni pompata dagli ossequiosi giornali.
La contessa prigioniera e il panta rei tra social e giornali
E poi abbiamo il caso della “prigioniera a Portofino”, la contessa Antonella Camerana, membro della dinastia azionista di Exor-Fca intervistata da Repubblica (Gruppo Gedi, “controllato da Exor”, sottolineano le altre testate). Dopo aver fatto il vaccino a Milano si è recata nella sua seconda casa nella blasonata perla del Tigullio per poi lamentarsi: qui «è molto deprimente. Mi alzo non vado nemmeno in piazzetta (…) qui non si vede nessuno. I negozi sono chiusi, come i bar e i ristoranti (…) è incredibile, non me l’aspettavo, speriamo che questa situazione di emergenza passi al più presto». Un’intervista surreale almeno quanto l’attacco del Travaglio furioso che chiamandola «povera senzatetto delle favelas di via Montenapoleone» percula il supplizio della signora dal suo «slum vista mare» stabilendo di fatto che no, i ricchi non possono piangere.
Possiamo stare sereni: l’invidia da vaccino c’è anche qua, ma invece di essere curata da medici e luminari finisce in vacca nella polemica cialtrona dei social e dei giornali che si fanno la guerra. In altre parole finché in Italia esisteranno gli Scanzi impresentabili testimonial di AstraZeneca, gli instagrammer sindacalisti delle Ats e i giornali che si litigano la coccola o il rogo alla contessa immune in villeggiatura, almeno il dovere di metterci ad allenare emotivamente il cervello o di darci alla meditazione per coltivare gioia e felicità per il prossimo vaccinato resta, vivaddio, fuori discussione.
Foto Ansa
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