
Lamento di un dinosauro digitale che fatica a ristartupparsi nel mondo yobibyte
Per dire che razza di lavoro è il nostro. Stavo scrivendo un abbozzo di autobiografia di cavernicolo nell’era digitale quando, alla trentesima riga e dopo numerosi passaggi che ci avevo messo tutta l’ironia del caso… Pof, mi si chiude inavvertitamente l’applicazione o qualcosa del genere. Il Mac recupera in automatico, non so che cavolo mi chiede di inviare, ma insomma, la perdita riguarda solo l’ultimo rigo. Poco male. Faccio per salvare di nuovo e dalla schermata salta fuori un boing. Trattengo il fiato e poi, per non sapere né leggere né scrivere, seleziono tutto, copio di nuovo, apro un nuovo file, incollo l’abbozzo chiuso inaspettatamente e… Gulp!, cosa diavolo sono queste informazioni da wikipedia invece delle mie trenta righe meno una? Cazz… nella fretta e furia che mi ha messo il boing devo aver selezionato senza il copia, chiuso senza salvare, ed eccomi qui al patatrac finale. Tocca ricominciare tutto da capo. Calma. Salvo un memo prima che mi si chiuda anche il cervello. (Ricorda di scrivere a Romano Prodi cordialmente dialogato alla presentazione dell’ultimo libro di Quadrio Curzio in Cattolica). E adesso ci riprovo. Possibile che ho perso proprio tutto? Possibile che non si riesca a recuperare un cazzo in questa bytoniera che digerisce e archivia chissà dove i caratteri? Si fa presto a dire “sono cose che capitano”, ma intanto c’è dietro sudore e battitura ispirata, una certa qualità di circuiti cerebrali impegnati per niente e scariche neuronali che non c’è assicurazione che te le indennizzi quando un succhiabyte del menga te li ha sbafati come un copertone bucato si sbafa l’aria. Vabbè. Devo ricominciare a scrivere.
Eccoci di nuovo al «Mi dicono che Neil Young, invece di continuare a suonare la sua vecchia west coast, ha investito un mucchio di soldi per farsi una app che scaricherà musica originale e pulita, così come l’ha fatta mamma sala di registrazione e non come la succhiamo adesso, sporca e sdrucita, dal compresso di mp3». Al che viene su il viaggio di stamattina da lavoratore pendolare. In compagnia di tutta quella bella gioventù e impieganza pubblica. Tutta gente che invece di star lì a contarsela su, a gigioneggiare e a farsi del bel respiro di massa, sta lì, lievemente inebetita, con le protesi acustiche in testa, ad ascoltare rutti musicali e tunf tunf. Invece dei microchip sotto pelle per il diabete, le masse vanno e vengono, corrono per i parchi e parlano come scemi con questi auricolari qui e i microfonini lì, giusto a un pelo di bocca (e poi parlano e parlano magari guardando te e te pensi: «E che cazzo hai da guardarmi, scemo, pensa a quello che dici, no?»).
Dico la verità: a me questa storia del nativo digitale mi ricorda il fluido vaginale. Se poi ci mescoli la bella idea di Bauman, il tipo che s’è inventato la storiella della “società liquida”, altro che lo shampoo di Gaber. Corri subito a farti una doccia, che qualunque cosa ti sfiora senti addosso la bava del pipistrello socialnetwork. Sarà un facebook, un twitter, uno skype? Intanto, per un pirla che s’attacca al mito della Rete e ci ricama sopra la famosa storia della democrazia digitale, c’è un bell’orecchione Echelon piantato nel Mediterraneo a spiare. E, soprattutto, c’è uno Zuckerberg che rivende i tuoi maroni alla Borsa di New York. Chiaro che non siamo abbastanza attrezzati antropologicamente per stare dentro questa impresa globalizzata che si chiama Rete. Il che, come sapete, è un problema serio. In effetti, sono nato nel mondo di una volta che non aveva granché in fatto di unità di misura e, peggio, di comunicazione. Personalmente avevo confidenza col metro, il litro, il chilogrammo, il chilometro quadrato e orario, l’infinita altezza e profondità del cielo stellato. Ma mai e poi mai avrei immaginato che l’ingegnere sarebbe diventato elettronico e il misuratore di kilowattora (che ancora oggi mi serve per risparmiare senza piantare una pala eolica nel giardino condominiale) si sarebbe trasformato nella rivoluzione del byte. Adesso non voglio costernarvi con lo sfoglio dell’ultimo numero di Jack, Elektor, Decoder o Costruire Hi-Fi. Dovrei spiegarvi perché, così, a pelle, non mi infoia l’idea di passare una serata o una seduta in toilette in compagnia di – chessò – un tablet, o un notebook, o un laptop.
Lo ammetto, quando sono in giro con uno di questi boss dei media center che mi raccontano quanto è friendly l’iPad, lo smartphone e il vattelapesca, mi viene in mente che adesso lo stanno costruendo al costo di fabbrica di 7 dollari al pezzo in un campo di lavoro cinese o in un gulag nordcoreano, dove c’è un mio simile che sta alla catena di montaggio e, finito il lavoro, tac, il gancio lo prende e lo scarica in branda, cinque ore di sonno, poi ripassa il gancio e lo riscarica alla catena… Per inciso, Prodi alla conferenza in Cattolica ha raccontato che la Apple è andata da Obama a presentargli l’ultimo iPad assemblato in Cina. «Scusate», fa Obama a questi della Apple, «non potete assemblarli in California gli iPad? Fate lavorare la nostra gente, e se non vi costano 7 ma 10 dollari, 3 dollari ve li do io, così date una mano alla nostra economia a ristartupparsi». «Già», gli han risposto in parole povere questi della Mela, «qui in America abbiamo tante di quelle leggi e avvocati che al primo colletto bianco o blu che gli viene il morbillo ci fanno una class action che invece di 7 o 10 ci costa 100 dollari l’iPad. In Cina, male che vada l’attesa media di vita è molto inferiore alla nostra, ma di forza lavoro a prezzo zerovirgola c’è n’è così tanta che se anche non dov’essero farcela a superare i trent’anni, come minimo, abbiamo ancora un secolo di miniera umana da cavare tutte le rivoluzioni digitali che vuole il mercato».
Chiaro che il virgolettato è nostro ed è frutto di una libera reinterpretazione dello scambio di vedute riferito da Romano Prodi qui (vedi pp.34-35) tra il colosso più liquido del mondo e il presidente più inguaiato della recente storia americana. Anche per questo mi sono dato ad approfondire le nuove unità di misura del mondo a cui sono connesso, si fa per dire, a partire dal mio Mac. E qui siamo al nocciolo della trattazione intorno alla faccenda del cavernicolo dinosaurico (che sarei io) e la profondità dell’uomo ultramoderno (che sarebbe Grillo e, soprattutto, i cinesini smanettoni in Rete per la rivoluzione di Grillo). A proposito, neanche quando ero giovane ho avuto a che fare con i miriagrammi o i decalitri. Ma adesso che mi sono informato sui byte, che sono l’unità di questa cosa da cui non puoi più scappare perché dal treno pendolare alla pay tv sei preso all’amo digitale, sapete che ho fatto? Ho consultato wikipedia e ho capito che siamo messi bene. Per dire, se sei fermo al gigabyte o, al limite, al terabyte, sappi che prima dello yobibyte ce n’è un’altra ventina di concetti basilari per adoperare la democrazia ultramoderna. Per intenderci: ho capito dall’enciclopedia ultrademocratica che lo yobibyte è un’unità di misura della quantità di dati che deriva dalla contrazione di yotta binary byte, yottabyte, il quale concetto è usato o come sinonimo per yobibyte oppure per riferirsi a 1.024 byte (un quadrilione di byte) creando in quest’ultimo caso un errore del 20,8%. Detto in parole povere, 1 yobibyte = 1.024 ZiB = 280 byte = 1.208.925.819.614.629.174.706.176 byte ≈ 1.000.000.000.000.000.000.000.000 byte γ 20,8% di errore. Chiaro, no?
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