
La vita dentro una ferita di Giovanni Lindo Ferretti

In questo periodo sto leggendo l’opera più recente di Giovanni Lindo Ferretti, Tanno, il suo esordio nel mondo del fumetto, in cui l’autore narra i fatti che hanno caratterizzato (e continuano a farlo) le “età della sua vita”: l’infanzia, gli studi, la morte del padre, il rapporto con la nonna, la madre e il fratello, il punk, i CCCP, i gruppi venuti dopo, la scrittura, la fede, il suo attaccamento al paesello natio, Cerreto Alpi, i cavalli e tutto quello che ne è seguito. E il nome dell’opera (ne era il nomignolo) è giustamente un omaggio a uno degli equini a cui l’autore è stato più affezionato, Tancredi. Grazie al ricordo del rapporto con esso, Ferretti guida il lettore alla scoperta del suo mondo interiore e del legame profondo con la propria terra e le proprie origini.
Ma Ferretti si è anche cimentato con il teatro; o meglio, è “tornato” ad esso, se prendiamo in esame il “teatro barbarico ed equestre” a cui si dedicò per anni. Lo scorso 18 ottobre, al Teatro Olimpico di Vicenza, ha portato in scena la prima assoluta di Moltitudine in cadenza, un progetto descritto dall’autore come «ritualità in forma di teatro», che si basa sulle pagine scritte dopo ogni concerto che lo ha visto nuovamente con i CCCP sul palco di diverse città italiane nella scorsa primavera-estate. Con lui in scena il percussionista Simone Beneventi.
«Un antico palcoscenico in ardita prospettiva urbana, un corpo/voce, un’ombra, percussioni, tono ritmo frequenza, percuotersi il petto: un dolore che non può pacificare, percuotersi la fronte: stupore mai sazio, rinnovato, 70 anni, echi biblici», si legge nella descrizione dello spettacolo, accompagnata da una citazione di Del mondo dei CSI: «È stato un tempo il mondo… il nostro mondo è adesso…».
La strada di McCarthy
Allo stesso tempo, tutto ciò mi rievoca due ricordi. L’uno riguardante il suo intervento al Salone del Libro di Torino, lo scorso 10 maggio, dove intervenne per parlare de La strada (2006), capolavoro di Cormac McCarthy, con padre Antonio Spadaro e il giornalista Alessandro Banfi. La trama vede quali protagonisti un padre e un figlio, impegnati nel sopravvivere in un mondo post-apocalittico; però, se attorno vi è disperazione e ferocia, loro (in particolare il figlio) cercano di rimanere umani, compiendo atti di benevolenza (“portano il fuoco”: amore quale antidoto alla barbarie).
In quell’occasione Ferretti raccontò di aver letto il libro quando era giovane frequentatore di librerie. Lo ha sempre colpito che i due protagonisti, per quanto vessati da un mondo ostile, non mostrassero paura; anzi, si dimostrano capaci di coglierne la poesia e la bellezza, ad esempio quando, vedendo il figlio dormire, il padre esclama che tale scena «rende giustizia ai profeti nel mondo». La realtà è un mistero buono, nonostante tutto. Quest’opera di McCarthy gli tornò utile quando si trovò al capezzale della madre: glielo lesse più volte, allo scopo di trovare nel rapporto padre-figlio l’aiuto per curare il rapporto “filiale-maternale”.
L’altro ricordo è inerente al suo (già rievocato) ritorno in tour con i CCCP, nei mesi scorsi. Un evento non solo musicalmente, ma anche culturalmente significativo, in particolar modo se consideriamo la vita dello stesso Ferretti. Io stesso sono stato tra i fortunati che hanno presenziato (in compagnia di fidanzata, di suo fratello maggiore e di un nostro caro amico) al suo/loro concerto quando è passato dalle parti di Torino, più precisamente a Collegno, il 27 giugno scorso.

La provincia più comunista dell’impero americano
Due possono essere le reazioni di fronte alla vita di Ferretti. Stimarlo, ma considerarlo vicino alla pazzia, soprattutto negli ultimi vent’anni. Oppure, stimarlo e considerarlo come testimone di “fatti dell’Altro Mondo”, nella cui vita il Mistero ha compiuto una damascena irruzione, avendo egli abbracciato la fede cattolica. Una vita tra allontanamento dalla fede degli avi, eroici ritorni (in primis appunto quello in seno alla Chiesa), malattie e grazie ricevute (come dimostra la guarigione da tre tumori e il superamento – il 26 aprile scorso, a Venezia – di un infarto, grazie anche al provvidenziale sostegno di Pietrangelo Buttafuoco), che potrebbe essere ben illustrata in un quadretto con “ex voto suscepto”.
E ha del miracoloso pure il suo ritorno con i CCCP, a quarantadue anni dalla loro nascita come primo e unico gruppo punk rock filosovietico; ovviamente a Reggio Emilia, la “provincia più comunista dell’impero americano”. In Europa, sono tra i più importanti e influenti gruppi punk rock e definirli così è riduttivo, siccome erano e sono avanguardia, rottura, uno squarcio sulla tela “fosforescente” degli anni Ottanta. Sono stati attivi tra il 1982 e il 3 ottobre del 1990 (lo stesso giorno della riunificazione tedesca); ma nel 2023 hanno fatto appunto ritorno. Oggi come allora il gruppo è composto, oltre che dal già citato front man Ferretti, dal chitarrista-cantante Massimo Zamboni, l’artista del popolo Danilo Fatur e Annarella Giudici, benemerita soubrette.
Gran Gala punkettone
Prima di tale ritorno, dal Novanta ad oggi, Ferretti è stato co-fondatore dei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti; 1992 – 2002; tornato nel 2013 e ancora attivo) e, in seguito, a Chiesa apertamente abbracciata, dei PGR o PG3R (Per Grazia Ricevuta; 2001 – 2009). Nel 2004 ha anche collaborato per l’album Litania con il musicista ed etnomusicologo Ambrogio Sparagna. Questi gruppi hanno saputo riproporre, non senza scelte innovative, la musica popolare; e, attraverso la voce graffiante e baritonale di Ferretti, “litanica”, ne hanno recuperato la secolare tradizione, cogliendo di essa ogni sfumatura, i temi e le altezze abissali dell’“Altro Mondo”, perché profondamente radicata nella christianitas o in una religiosità pagana, però pronta ad abbracciarla.
Il ritorno dei CCCP era stato anticipato nell’ottobre scorso da una mostra di successo (quasi 30.000 le presenze registrate) ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia e dal “Gran Gala Punkettone di parole e immagini”. Eventi che li hanno giusto celebrati, ben oltre la musica, come fatto culturale molto più complesso, di cui continuiamo ad avere bisogno. Dacché hanno saputo evidenziare, come pochi altri, le ipocrisie e le brutture della cosiddetta società moderna e post-moderna: prime fra tutte la banalizzazione o relativizzazione del “Verum, Bonum et Pulchrum” e la trasformazione mercificante dell’uomo in automa consumatore, allo scopo – per dirla con Morire, loro celebre canzone – di farlo “produrre, consumare e crepare”.
Vivere, non rievocare
E così, corroborati dall’affetto mai venuto meno di migliaia di sostenitori, i quattro artisti hanno deciso dapprima di ritornare a Berlino (il 25/02/2024), dove nel 1982 i CCCP nacquero – e qui storia e leggenda si mescolano – dall’incontro tra Ferretti e Zamboni. “Il Punk filosovietico e la musica melodica emiliana si incontrano nel cuore pulsante della Repubblica Smantellata di Germania Est”, questo lo slogan scelto da Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni per lo show dal titolo CCCP in DDDR (Deutsche Demokratische DISMANTLED Republik) portato all’Astra Kulturhaus.
E, in seguito, di organizzare una tournée tardo primaverile ed estiva. Dal 21 maggio al 29 agosto, tra nord e sud, hanno suonato, ballato e cantato sul palco di molte importanti città italiane. In tutti questi eventi (ed ho potuto constatarlo di persona proprio a Collegno) ha sempre affascinato la loro complicità, perché capace di comunicare un’amicizia fraterna mai finita e un messaggio chiaro: “I CCCP sono tornati per vivere e non per fare mere rievocazioni storiche”.
Nella scaletta di ciascuno dei concerti è stato passato in rassegna quasi tutto, dal primo e.p. all’ultimo disco. A fare da presentatrice all’inizio («prima era troppo presto, adesso è troppo tardi, ma questo è il nostro tempo») e tra una canzone e l’altra, lei, l’eterea Annarella; Fatur a curare coreografie, vestito dei rottami del nostro tempo che a lungo ci sopravvivranno; Zamboni alla chitarra e, ovviamente, Lindo al microfono; tuttavia, in certi momenti, i suoi comrades o lo hanno affiancato oppure gli hanno dato il cambio, come Danilo Fatur con Vota Fatur. Ad accompagnarli sul palco c’erano Ezio Bonicelli (chitarra e violino), Luca Rossi (basso), Simone Filippi (batteria), Gabriele Genta (percussioni) e Simone Beneventi (percussioni, tastiere).
Chi è il suo profeta
Si è assistito così all’alternarsi tra brani più intimi: in primis, la preghiera laica Madre, che dimostra che Ferretti era già cattolico con ancora la cresta alla Mohawk, Litania, Amandoti (conosciuta anche grazie alla Nannini, che gli prestò la voce) Annarella, e quelli più di impatto come Rozzemilia, Morire, col suo grido già citato e ancora attualissimo «produci consuma crepa», Radio Kabul, Depressione caspica, Curami, Emilia Paranoica, Spara Jurij, Punk Islam, cambiando però la strofa: «Allah è grande e Gheddafi è il suo profeta» con «Chi è grande e chi è il suo profeta» (una domanda un po’ enigmatica, ma dallo stile inconfondibilmente evangelico).
Vale la pena considerare attentamente Madre per le profonde implicazioni sulla vita stessa del Ferretti. Un canto che è il grido che sorge da una ferita ed è, ieri come oggi, invocazione-preghiera: «Madre di Dio/ e dei suoi figli/ madre dei padri e delle madri/ madre oh madre o madre mia/ l’anima mia si volge a te». Ferretti la scrisse nel lontano 1986, ispirato da un viaggio in macchina verso casa lungo la statale 63. «La costruzione della canzone è venuta cantando – ha raccontato lo stesso artista -, non pensando le parole. È come se io conoscessi quella melodia, ma in realtà non era vero non la conoscevo non era una canzone della mia infanzia, era nuova. È diventata poi una Canzone dei CCCP intitolata Madre. Mentre la cantavo ad un certo punto il concerto dei CCCP diventava una preghiera assoluta e io cominciavo a guardare il pubblico con occhi nuovi, uno per uno, in quanto creature erano belle, c’era qualcos’altro nel mondo al di là del mio pensare e sul palcoscenico ho cominciato a pensare che c’era dell’altro, che la mia vita non poteva ridursi a quello».
A tal proposito, colpisce che durante i concerti abbia fatto cantare la “versione estesa”, quella a cui sono state aggiunte le Litanie lauretane, frutto della collaborazione con Ambrogio Sparagna; a maggior ragione se si considera che la maggior parte dei presenti era dichiaratamente e vistosamente sinistrorsa. Un altro dei miracoli che costellano la vita del Ferretti?
Egli ci testimonia come vivere su una soglia, vivere dentro una ferita, il coraggio, o il destino, di abitare il dolore fino in fondo. «Giovanotto – ricorda ancora Lindo in Bella gente d’Appennino – sono stato succube e agente di una ideologia falsificante che estirpava, in baldanzosa marcia, ogni legame organico. Pietas, liturgia, vocazione e virtù ridotti a banalizzazione rancorosa e derisoria della propria storia plasmata con difficoltà, nei secoli, a civiltà della cristianità».
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