La vita degli altri, musulmani

Di Emanuele Boffi
29 Maggio 2003
L’islam in Italia ha bisogno di trovare esponenti laici che lo guidino verso l’integrazione. Parola di Magdi Allam, giornalista arabo fuori dagli schemi

pesso controcorrente rispetto alla linea del suo giornale, Magdi Allam, editorialista e “islamologo” di Repubblica, sa bene di cosa parla quando si tratta di islam. Egiziano di nascita, occidentale per costumi e mentalità, ha di recente pubblicato Saddam, storia segreta di un dittatore. La guerra in Irak è terminata ma Allam continua a ricevere lettere, spesso critiche, per la sua posizione “filoamericana” nella finestra “La vita degli altri”, sul sito del quotidiano. Pur non essendo completamente convinti da certe sue posizioni e soluzioni, gli va riconosciuta una competenza non comune e una capacità non indifferente nel saper individuare le problematiche inerenti il mondo musulmano (fu il primo a parlare di “caduta del Muro di Berlino dell’islam” dopo la presa di Baghdad). Questioni che, a voler essere molto generosi e politically correct, sono in “controtendenza” rispetto alla linea del suo editore.
Non è così?
Non voglio sollevare polemiche. Dico solo che la pluralità di opinioni è un fatto sacrosanto anche all’interno di un grande giornale come La Repubblica. E questo va a merito del quotidiano e del suo direttore. Ciò che conta è che il confronto avvenga non su schemi ideologici e posizioni preconcette. Ma, alla fine, io credo che i fatti siano quelli che contano, che parlano di per sé. Noi, come osservatori, cerchiamo di comprenderli, di interpretarli e prevederli.
A proposito di interpretazioni, non negherà che sull’intervento in Irak non ci sia stata “qualche differenza” fra lei e il suo giornale.
Nonostante tutte le difficoltà che ci sono in Irak, credo che ci sia una situazione relativamente migliore rispetto a quella dei 35 anni di tirannia assoluta di Saddam. E che le prospettive siano incoraggianti, anche se questo non significa dare una valutazione positiva del conflitto. Io sono stato contrario all’intervento, ma ho preso atto che c’era una legittima richiesta degli irakeni di liberarsi del dittatore. Il mio approccio è sempre quello di partire dal basso, dal vissuto delle persone. Nel dibattito italiano ci si è divisi fra filoamericani o antiamericani. Il mio punto di partenza e di arrivo era diverso. Io sono partito dagli irakeni, torno agli irakeni e dico: oggi stanno meglio.
Parliamo dell’Italia. In un’intervista al ministro degli Interni, Giuseppe Pisanu (La Repubblica, 23.05.03), e in un successivo intervento (La Repubblica, 24.05.03), lei ha sollevato un problema: in Italia coloro che frequentano le moschee sono solo il 5% dei musulmani. Se le autorità insistono nel considerare interlocutori validi solo i praticanti e non i “non praticanti” rischiano di fare «un regalo agli integralisti consacrandoli a rappresentanti dell’insieme della comunità musulmana, che è nella stragrande maggioranza sostanzialmente laica». Lei propone, come via d’uscita, la trasformazione delle moschee in «case di vetro dell’islam». Il problema tuttavia rimane: i musulmani accetterebbero una soluzione del genere?
Se per islam intendiamo i gestori delle moschee (e sappiamo che sono personaggi legati ai Fratelli Musulmani, ai wahabiti sauditi e a frange radicali che patrocinano l’ideologia della guerra santa) è chiaro che l’accordo diventa difficile. Perché ci troviamo di fronte a un pensiero che più che integrarsi nella società, più che aderire alle leggi dello Stato e a rispettare le istituzioni, mira alla costruzione di uno Stato nello Stato. E poi bisogna vedere quali siano i termini degli accordi; se sono accordi limitati ad aspetti cultuali o sono accordi che investono la sfera sociale e culturale. Nel primo caso, se si tratta di concordare come devono essere gestite e finanziate le moschee, è comprensibile che gli interlocutori possano essere solo i gestori delle moschee. Se, invece, si tratta di questioni che investono tematiche di fondo, come il diritto di non essere credenti, di professare la propria laicità, lo stato di famiglia o la condizione della donna, tutte queste tematiche non possono essere abbandonate a persone che rappresentano soltanto l’aspetto cultuale.
Ma se sull’aspetto “religioso”, l’imam potrebbe essere rappresentativo (anche se l’imam è solo colui che guida la preghiera, non la guida della comunità, come lo sono, ad esempio, i nostri sacerdoti), sull’aspetto “civile”, “laico”, chi sono gli interlocutori? Dove sono?
Non esiste un rappresentante dell’islam civile. Esistono dei ruoli che servono ad espletare delle funzioni. È difficile ottenere una rappresentanza genuina delle comunità. Tuttavia, oggi vedo una maggioranza silenziosa all’interno dell’islam che non pone problemi. Perché non solleva quelle istanze che presentano invece i gestori dei luoghi di culto, i quali mirano a formare una comunità autonoma che prelude e consolida il problema.
Credo che le istituzioni italiane debbano procedere per favorire la piena integrazione aldilà della fede di ciascuno.
È una maggioranza silenziosa organizzata?
No.
Dunque?
Non è organizzata perché si tratta di una comunità giovane. Stiamo parlando di immigrati della prima generazione, di gente che ha ancora il problema del lavoro, dell’inserimento sociale, di ottenere la cittadinanza italiana. I loro problemi sono altri rispetto all’organizzazione, alla promozione di una base organizzativa che assuma delle istanze politiche. Ma, oggi come oggi, rappresentano una maggioranza che è laica. Probabilmente loro non percepiscono nemmeno questa loro identità, ma, nei fatti, è così.
Che fare perché “escano allo scoperto”?
Più si agevola l’immigrazione come risorsa, favorendo un processo d’integrazione che sfoci nell’acquisizione di una cittadinanza con parità di diritti e di doveri, più si agevola la questione confessionale, prevenendola da tentazioni autonomistiche ed eversive. C’è sempre una crisi d’identità nei giovani musulmani che li porta ad entrare nei movimenti eversivi o terroristici. Questo avviene solitamente quando il sistema li rifiuta. È una reazione ad una loro impossibilità ad essere parte integrante della società in cui vivono.
Ma, come lei stesso ha fatto notare, questi giovani non sono soltanto emarginati dalla società. Spesso si tratta di gente che ha studiato, è istruita, ha vissuto nel mondo occidentale come Mohammed Hanif, il kamikaze che si è fatto esplodere a Tel Aviv il 30 aprile scorso, che era cittadino britannico. Dobbiamo, quindi, pensare che l’origine del problema è l’emarginazione o, piuttosto, l’educazione che a questi giovani è impartita?
Se il sistema dei valori in cui i giovani crescono è rigido e non favorisce l’inclusione di altri valori, si provoca una reazione da parte di chi non si sente accettato. Chi è rigettato potrebbe essere tentato da una fuga eversiva e diventare così discepolo di qualche profeta dell’odio. In paesi come la Gran Bretagna, dove gli immigrati sono alla quarta o quinta generazione, il fenomeno è più tangibile: abbiamo delle comunità che, di fatto, sono uno Stato nello Stato e hanno una propria organizzazione politica, finanziaria, ideologica, addirittura con delle proprie formazioni paramilitari come è accaduto nelle periferie di Londra. Io credo che l’Italia possa, avendo una comunità immigrata modesta ed esigua, permettersi oggi, facendo tesoro delle esperienze altrui, di evitare errori e adottare una propria strada all’integrazione degli immigrati. Evitando così i traumi che esitono in Gran Bretagna, Francia e Germania.

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