
La vergogna di Hong Kong

Il 2 maggio Chow Hang-tung è entrata all’Università di Hong Kong per pulire il “Pilastro della vergogna” e iniziare così a commemorare il 32esimo anniversario del massacro di Piazza Tienanmen. La vicepresidente dell’Alleanza a sostegno dei movimenti democratici patriottici in Cina, 36 anni, ha acceso insieme ad altri attivisti delle candele disposte per formare i numeri romani “6” e “4” (il massacro avvenne appunto il 4 giugno), ha gridato i tradizionali slogan invisi al regime cinese («giustizia per le vittime del 1989», «basta con la dittatura del partito unico», «il potere appartiene al popolo») e osservato un minuto di silenzio prima di iniziare a ripulire la statua.
La scultura alta otto metri, realizzata in cemento dall’artista danese Jens Galschiøt, è formata da 50 corpi contorti e simboleggia la degradazione e lo svilimento del valore degli individui. Eretta per la prima volta nel 1997 a Hong Kong per ricordare le vittime di Tienanmen, viene ripulita e lucidata ogni anno dagli attivisti e dagli studenti universitari. Il gesto, spiega Chow a Tempi, «è una cerimonia molto semplice per simboleggiare la libertà di espressione in università» e si ripete da 20 anni. Ma questo non è un anno come gli altri. Nel luglio 2020 il Partito comunista cinese ha inserito direttamente nella mini Costituzione di Hong Kong la legge sulla sicurezza nazionale, che in neanche 12 mesi ha di fatto azzerato le libertà civili della popolazione. Mentre Chow e altri attivisti ripulivano la statua, almeno sei membri del personale universitario riprendevano infatti il rituale con i telefonini: i filmati potrebbero presto diventare prove per dimostrare che gli attivisti hanno commesso uno dei reati puniti dalla nuova legge: terrorismo, secessione, sovversione e collusione con forze straniere.
Chow è consapevole che un gesto banale come pulire una statua potrebbe avere conseguenze molto gravi. La nuova legge prevede pene fino all’ergastolo: «Sono vicepresidente dell’Alleanza. Il nostro presidente è già in carcere e credo che anch’io finirò presto in prigione», spiega. «Del resto, quando ti opponi a una dittatura che cosa puoi aspettarti di diverso? Ho un po’ paura, ma so che è la cosa giusta da fare».
Il presidente dell’Alleanza è Lee Cheuk-yan, uno degli attivisti più famosi della città, che nel novembre 2019 partecipò a Milano all’incontro organizzato da Tempi sulla situazione politica nell’isola: “La libertà è la mia patria. Da Piazza Tienanmen a Hong Kong”. Il 16 aprile Lee è stato condannato a 14 mesi di carcere per aver partecipato, nell’agosto 2019, a una delle più imponenti manifestazioni pacifiche della storia della città. Allora 1,7 milioni di persone scesero in piazza per protestare contro la legge sull’estradizione, che il governo dell’ex colonia britannica fu infine costretto a ritirare. Insieme a Lee, anche l’editore più famoso dell’isola, Jimmy Lai, è stato condannato al carcere. Altri famosi attivisti come l’avvocato Albert Ho o il “padre della democrazia” Martin Lee hanno ottenuto la sospensione della pena, ma potrebbero comunque finire dietro le sbarre se verranno condannati nei prossimi processi nei quali sono imputati.
Quando la follia diventa legge
Paul Harris, presidente dell’Ordine degli avvocati di Hong Kong, ha commentato così il verdetto del giudice: «È la prima volta che la partecipazione a una manifestazione interamente pacifica non autorizzata porta a una condanna al carcere. In passato, veniva al massimo comminata una multa». Chow, avvocato di professione, conferma: «La scelta del giudice non è soltanto incoerente con la legge di Hong Kong, è inammissibile. Riunirsi è un diritto iscritto nella nostra Costituzione: si chiede il permesso alla polizia per ragioni amministrative, ma la condanna al carcere viola tutte le norme internazionali in materia. La sentenza è folle, anche se ce lo aspettavamo».
Da quando la legge sulla sicurezza nazionale è entrata in vigore, infatti, ciò che prima era “stupefacente” a Hong Kong è diventato purtroppo ordinario. Molti leader democratici sono già in carcere e altri vi finiranno presto visto che ogni critica verso il Partito comunista o il governo cinese è ormai considerata un reato. Più di 50 attivisti attivisti e politici del fronte pandemocratico, ad esempio, sono stati incriminati a gennaio per aver organizzato nel 2020 le primarie in vista delle elezioni parlamentari. Più di 600 mila persone hanno partecipato al voto, ma poiché i candidati avevano come obiettivo quello di «opporsi al governo», dovranno rispondere in tribunale dell’accusa di sovversione.
Fedeli alla linea per forza
Le elezioni, rimandate a causa della pandemia, si svolgeranno il 19 dicembre ma parlare di democrazia sarebbe un insulto. Il modello “Un paese, due sistemi”, architrave dell’accordo con il Regno Unito che ha sancito il ritorno dell’ex colonia alla Cina nel 1997, doveva garantire ampia autonomia alla città fino al 2047, ma il colpo di mano di Pechino «ha ucciso il sistema democratico di Hong Kong», sottolinea la vicepresidente dell’Alleanza. La nuova legge elettorale scritta dal regime, infatti, non prevede soltanto che appena 20 seggi su 90 saranno occupati da politici eletti dal popolo. Nessuno potrà candidarsi se non dimostrerà di essere «patriottico», cioè fedele alla linea del Partito comunista. Ad assegnare la patente di patriottismo sarà una commissione ad hoc controllata da Pechino.
Come si può parlare di elezioni libere quando tutti i principali politici dell’opposizione sono in carcere o sotto processo e le candidature vengono sottoposte al vaglio del regime? I cittadini di Hong Kong potrebbero esprimere il loro dissenso disertando le urne o, ancora meglio, votando scheda bianca, ma il governo ha appena approvato una nuova legge che prevede tre anni di carcere per tutti coloro che «inciteranno apertamente a votare scheda bianca». Una misura grottesca che svela l’inevitabile aspetto farsesco della repressione. «La Cina ha il potere assoluto ormai, eppure continua ad avere paura», spiega Chow. «Il motivo è chiaro: il governo insiste nel dire che il popolo è dalla sua parte, che la legge sulla sicurezza nazionale è riconosciuta come un bene da tutti. Se la gente votasse in massa scheda bianca, li metterebbe in imbarazzo. Ecco perché vogliono vietarlo. Vogliono far credere al mondo che a Hong Kong esiste ancora la democrazia. È propaganda, certo, ma il regime spera che qualcuno ci creda».
Il lavaggio del cervello ai bambini
L’improvvisa presa del potere da parte di Pechino a Hong Kong ha già spinto migliaia di cittadini a fuggire. Il Regno Unito si aspetta che fino a un milione di persone, su una popolazione di 7,5 milioni, scapperanno a Londra nei prossimi cinque anni. È anche per questo che poche settimane fa la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, ha approvato una nuova legge che conferisce all’esecutivo un potere illimitato: impedire a chiunque, senza dover rendere spiegazioni, di entrare o uscire dalla città. «Chiunque verrà considerato ostile all’autoritarismo cinese sarà bandito da Hong Kong», spiega a Tempi Fan Cheung-fung, che lavora per la Confederazione dei sindacati della città. «È una legge che ci preoccupa molto, perché il governo la userà per impedire a leader democratici e attivisti di evitare la persecuzione. Potranno vietare a chiunque di lasciare la città. È una misura evidentemente incostituzionale ma ormai lo Stato di diritto è morto a Hong Kong. La legge, inoltre, non serve teoricamente perché i giudici già ritirano il passaporto per impedire a chi è imputato o condannato di scappare. Questo dimostra che in realtà la legge ha un altro obiettivo: instillare la paura nel cuore dei cittadini per spingerli a sottomettersi alla nuova dittatura».
Se gli adulti vanno convinti con le buone e le cattive, per i più piccoli il Partito comunista ha pensato a una rigorosa operazione di indottrinamento. Il 15 aprile il governo di Hong Kong ha così istituito e festeggiato la prima Giornata dell’educazione sulla sicurezza nazionale. In tutte le scuole, a partire dalle materne, i bambini hanno dovuto assistere a lezioni sull’importanza della legge sulla sicurezza nazionale e sono stati invitati a coniare slogan per elogiare il regime. «Non è altro che lavaggio del cervello», commenta Chow. Tutti gli insegnanti sono stati costretti ad aderire, racconta Fan, «ma come sappiamo dal nostro sindacato, i professori con estrema cautela stanno cercando nuovi sbocchi per educare i ragazzi alla coscienza critica. Sono convinto che gli insegnanti sapranno essere creativi».
Creatività è diventata una parola fondamentale a Hong Kong. In un momento in cui ogni espressione di dissenso è divenuta reato, «è necessario trovare nuovi modi per continuare a opporsi al regime senza però finire tutti in carcere», continua Fan. «La storia insegna che le dittature, alla lunga, non vincono mai se il popolo è unito. Ecco perché dobbiamo restare insieme e non arrenderci, insegnare ai nostri giovani a distinguere il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato. Fino a quando ci permetteranno di esistere, è quello che faremo con il sindacato».
L’arma del Covid
La pensa così anche Chow, che poche settimane fa ha chiesto ufficialmente il permesso per commemorare le vittime di Piazza Tienanmen il 4 giugno al Victoria Park. Per il momento, è stata la risposta del governo, la richiesta non può essere esaminata a causa della pandemia. Basta guardare i dati per capire che il Covid-19 viene usato come scusa per reprimere ancora di più la libertà di espressione: a Hong Kong non si registrano più di 10 nuovi casi al giorno da mesi. Già l’anno scorso la pandemia era stata utilizzata come scusa per impedire, per la prima volta dal 1990, lo svolgimento della veglia cui partecipano decine di migliaia di persone.
Non è un caso se uno dei cartelli che il 2 maggio è stato deposto ai piedi del Pilastro della vergogna riproduce la famosa scena del “Tank man”, solo che l’uomo coraggioso che si oppose ai carri armati al posto della spesa tiene in mano un ombrello giallo, simbolo delle proteste nella città, mentre il cingolato al posto del cannone semovente presenta le punte a forma di corona che caratterizzano il Covid-19. Eloquente la scritta: “Basta abusare della pandemia per sopprimere la libertà di espressione”. «La gente non ha smesso di combattere per Hong Kong», conclude Chow. «Siamo in tanti a non voler tollerare leggi ingiuste e persecuzioni. La situazione è critica, ma finché la gente non perderà la speranza, la battaglia per Hong Kong non sarà persa».
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