La vera strategia degli Usa

Di Rodolfo Casadei
15 Maggio 2003
Imposizione della democrazia e della pace? Neanche per sogno. In Medio Oriente nel mirino degli Usa c’è la doppiezza saudita. Parola del grande Bernard Lewis

Il tempo che si dedica alla lettura di Bernard Lewis è sempre ben speso. L’anziano e famoso islamista americano di origine britannica, autore di ponderosi saggi sulla storia del Medio Oriente, è capace di scrivere best-seller illuminanti anche per il grande pubblico, come Il suicidio dell’islam (Mondadori 2002, titolo originale: What went wrong?). Le 151 pagine del libro-intervista che Fiamma Nirenstein ha realizzato con lui, Islam – La guerra e la speranza (Rizzoli 2003), scritte alla vigilia dell’attacco americano all’Irak, le leggono d’un fiato con gusto e profitto sia l’esperto che il profano. Che si tratti delle Crociate, dei fraintendimenti storici fra cristiani e musulmani, dell’avvento dell’islamismo, della rabbia islamica contro l’Occidente o della questione israelo-palestinese, le osservazioni di Lewis provocano immancabilmente l’allargamento del quadro mentale del lettore e perciò un senso di gratitudine.

Bernard Lewis, da storico a stratega
Da un anno e mezzo a questa parte, però, i libri di Lewis hanno acquistato un valore nuovo e del tutto inedito che va ad aggiungersi a quelli già conosciuti: possono essere letti come espressioni ed anticipazioni della politica americana in Medio Oriente. Dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, infatti, l’86enne islamista è diventato uno dei più ascoltati consiglieri dell’Amministrazione Bush. Ha partecipato agli incontri del Consiglio consultivo della difesa, ha avuto colloqui personali col presidente Bush e col suo vice Dick Cheney. Il viceministro della difesa Paul Wolfowitz gli ha reso omaggio nel marzo scorso, in occasione di un pubblico tributo a Tel Aviv (città dove Lewis, che è anche cittadino israeliano, vive e insegna una parte dell’anno) con queste eloquenti parole: «Bernard Lewis ha spiegato con somma brillantezza la situazione del Medio Oriente in tutta la sua completezza, a partire da una prospettiva veramente obiettiva, originale e sempre indipendente. Bernard ci ha insegnato a comprendere l’intricata e decisiva storia del Medio Oriente servendosi di essa per segnalarci la via per costruire un mondo migliore per le generazioni future». Effettivamente Lewis negli ultimi tempi non si è limitato a fare lo storico, ma si è compromesso con prese di posizione politiche. La sua firma compare, insieme a quella di Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz e altri esponenti «neoconservatori», in calce alla lettera diretta all’allora presidente Bill Clinton nel febbraio 2000 per invitarlo a lanciare un’offensiva militare decisiva contro l’Irak di Saddam Hussein. Le cose si sa poi come sono andate.
Ma la sintonia politica coi neoconservatori e la loro frequentazione non sono probabilmente la ragione decisiva dell’alta considerazione in cui l’amministrazione Bush tiene l’illustre storico e i suoi consigli. In realtà, come si scopre facilmente leggendo il libro-intervista della Nirenstein, ci sono punti significativi di differenziazione fra Lewis e i neoconservatori. Il motivo più persuasivo della crescente influenza dell’islamista sulle decisioni Usa di politica mediorientale pare un altro: nell’ultimo quarto di secolo Lewis ha sempre annunciato in anticipo, fra lo sconcerto e lo scetticismo generali, le svolte della «rabbia islamica» (che è poi il titolo di un articolo-spartiacque da lui scritto nel 1976 per Foreign Affairs) che poi hanno avuto realmente luogo. Di volta in volta ha preannunciato l’eclisse del panarabismo laico soppiantato dall’islamismo radicale, la natura teocratica della rivoluzione khomeinista in Iran, il terrorismo islamico globale contro l’Occidente. Quest’ultima è stata la profezia più clamorosa: Lewis fu l’unico a prendere sul serio, nel 1998, il jihad proclamato da Osama Bin Laden contro «crociati ed ebrei», snobbato con supponenza un po’ francese da un pur grande islamista come Gilles Kepel. Ce n’era abbastanza perché Bush lo prendesse in squadra.

Democrazia sì, ma a piccole dosi
Letto con occhiali politici, Islam – La guerra e la speranza contiene una serie di rivelazioni. La prima è che l’«esportazione della democrazia» nel mondo arabo e una soluzione definitiva al conflitto fra israeliani e palestinesi sono obiettivi della politica americana solo in forma molto mediata. L’una e l’altra devono venire dall’interno e non dall’esterno. «…la democrazia non è qualcosa che si può importare già bell’e pronta… è qualcosa che si deve sviluppare in modo organico e graduale nel tempo. Le tradizioni politiche dell’islam non sono democratiche come siamo abituati ad averle in Occidente, ma contengono alcuni elementi che, se sviluppati, penso possano condurre alla crescita organica di una democrazia… Il governo tradizionale islamico è limitato e responsabile. La dittatura non fa parte della tradizione islamica araba. …la democrazia è una medicina potente… se se ne somministra troppa e troppo in fretta, si uccide il paziente… nell’antica tradizione dell’islam vi sono i semi non di un governo democratico, ma di un governo legale, consensuale, contrattuale». Pare di capire che gli americani non vogliano imporre all’Irak pericolosi esperimenti col suffragio universale e la propaganda partitica («tenere le elezioni prima che la gente sia pronta può favorire l’ascesa di un dittatore», afferma ancora Lewis), ma optare piuttosto per la via afghana: governo di unità nazionale volto a rappresentare tutte le componenti etniche e religiose, e a spartire la torta petrolifera fra di esse.
Simile l’approccio al conflitto israelo-palestinese. Lewis comincia spiegando che nemmeno la pace di Camp David fra Begin e Sadat fu il risultato di una mediazione-imposizione americana sotto l’egida di Billy Carter: «Questa non è storia, ma mitologia. La vera storia è quella di un lungo e segreto negoziato bilaterale tra Egitto ed Israele… Quando Sadat ha pronunciato il suo famoso discorso: “Voglio andare a Gerusalemme”, si erano già accordati su tutti i punti principali. Perché per renderli pubblici si è scelto un incontro in America? Perché qualcuno doveva pagare il conto e fare da cassa di risonanza». «La pace fra Begin e Sadat fu possibile perché c’era stato tra loro un lungo negoziato segreto, senza pubblicità e senza mediatori». Questa logica vale anche per la pace fra Israele e palestinesi: «…se venisse dall’alto, si tratterebbe di una pace imposta, la pace di un imperatore che ha a che fare con dei prìncipi». E qui Lewis sfida un altro luogo comune diffuso: non è vero che gli Usa ambiscono ad un potere imperiale. «L’America non vuole dominare il mondo, l’America non vuole immischiarsi con il mondo. L’America sente l’obbligo di difendere i suoi cittadini e certi valori necessari alla loro sicurezza». E alla domanda se gli Stati Uniti siano entrati militarmente in Irak per «gettare i semi di una situazione migliore» risponde: «Certo, se l’intervento degli Usa nell’area sarà, come penso, limitato nella portata e nel tempo. Non riesco a vedere gli Stati Uniti entrare in un’operazione su larga scala e a lungo termine. L’Europa è abituata agli imperi. Per quasi tutta la storia moderna abbiamo assistito all’espansione territoriale dell’Europa. Oggi si immagina che l’America stia facendo la stessa cosa. L’America ha avuto la sua grande espansione dentro l’America stessa. Ecco perché tredici stati sono diventati cinquanta. L’America si estende da mare a mare, da oceano ad oceano, e tanto le basta». Il successo dell’intervento Usa in Medio Oriente, perciò, dipende proprio dalla capacità di dissipare i sospetti circa velleità imperiali. All’Irak non si deve chiedere nulla di più che un rapporto amichevole con gli Usa: «Dico amichevole, perché dovesse diventare un sottoposto, sarebbe una rovina».

Washington punta sugli ashemiti?
Se non sono né la presunzione imperiale, né la volontà di imporre la pace a tutti i costi che hanno spinto gli Stati Uniti a impelagarsi nel ginepraio mediorientale, qual è allora la motivazione di fondo? Lewis lascia capire qua e là di cosa si tratta: «… gli arabi hanno sempre cercato qualcuno che li aiutasse contro i nemici occidentali, prima i nazisti, poi i sovietici, e adesso cercano qualcuno che possa rimpiazzare questi ultimi. Oggi il nemico è sempre più identificato con gli Stati Uniti ed Israele, e l’Europa, nelle loro aspirazioni, potrebbe aiutarli a liberarsene». «…se il Medio Oriente non cerca la pace e continua nella guerra, prima o poi sopraggiungerà una potenza esterna che assumerà il controllo della regione. Potrebbe essere l’India, la Cina, una Russia risorta, tutto è possibile. Non saranno né l’Europa, né l’America perché l’Europa non può e l’America non vuole».
Ecco la motivazione strategica profonda delle azioni Usa: temono non tanto il radicalismo musulmano, ma l’uso che di esso potrebbe fare qualche grande potenza costituita, o presunta tale. Per sventare questa ipotesi gli Usa sembrano pronti ad altri passaggi traumatici del tipo di quello irakeno. Un attacco alla Siria? La destabilizzazione dell’Iran? No, ben altro: «La gente pensa che l’Arabia Saudita sia così da migliaia di anni, mentre invece è una creazione moderna. è stata creata nel 1925 mettendo insieme elementi molto diversi… Il regno saudita è un castello di carte. Non è difficile immaginare una situazione in cui possa crollare». Che avverrebbe allora? «Ci sono molte possibilità, una di queste è che gli ashemiti possano tornare nel Hijaz. Gli ashemiti (la famiglia del defunto re Hussein di Giordania – ndr) governavano il Hijaz già ai tempi del Profeta». E questa sì che sarebbe una vera rivoluzione in Medio Oriente.

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