
La vera storia delle toghe rosse
Ha ragione Bruti Liberati e ha torto Gianfranco Fini. Il vicepresidente del Consiglio aveva accusato «settori minoritari e politicizzati della magistratura» di condizionare la vita politica del paese, con riferimento al diluvio di anomalie che da anni caratterizzano il processo Sme di Milano. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) ha avuto buon gioco nel far notare, all’indomani delle elezioni del Comitato direttivo dell’associazione, che il voto dei magistrati ha tributato «un accresciuto consenso alla linea della fermezza» contro il governo. Le due correnti di sinistra, Magistratura democratica (Md, di cui fa parte Edmondo Bruti Liberati) e Movimento per la giustizia, hanno visto aumentare nettamente i loro consensi mentre i gruppi moderati (Magistratura indipendente e Unità per la Costituzione) hanno avuto una flessione. Ma anche questi raggruppamenti non hanno perso occasione, negli ultimi tempi, di criticare i progetti di riforma del ministro Castelli.
Togliatti non avrebbe permesso tutto questo
Effettivamente la politicizzazione dei magistrati italiani è ormai un problema che va ben al di là della «minoranza di toghe rosse» evocata da Fini. Non erano certamente tutte “toghe rosse” i magistrati che un anno fa hanno “scioperato” con un tasso di partecipazione dell’80% contro la riforma dell’ordinamento progettata dal governo Berlusconi, quelli che polemicamente (e sfrontatamente, visto che loro per primi la vìolano quotidianamente nella forma e nella sostanza) sono sfilati con una copia della Costituzione sotto il braccio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario; così come di sinistra non sono esponenti di punta ed ex del pool di Milano che in questi anni hanno usato della funzione giurisdizionale per obiettivi politici e crociate di vario genere, Antonio Di Pietro e Camillo Davigo sopra tutti. L’interrogativo da porsi, semmai, è come la magistratura italiana nella sua maggioranza sia approdata a concepirsi nello stesso modo in cui trent’anni fa le “toghe rosse”, sparuta minoranza dei magistrati italiani, concepivano se stesse: un contropotere rispetto al governo ed al sistema politico. è questa mutazione genetica della magistratura italiana, all’interno della quale la cultura di Md è diventata egemone, che va compresa. Attribuirla, come fa la sinistra politica, alla presunta tracotanza di Berlusconi è mistificante e contrario alla verità storica. D’altra parte l’ascesa all’egemonia di Md, il vivaio storico delle “toghe rosse”, è avvenuta al prezzo di alcune notevolissime discontinuità rispetto alla sua cultura ed alle sue prassi del passato, prima fra tutte l’attaccamento al garantismo, che un tempo era la “religione” delle toghe rosse, ma anche la rinuncia alla tradizionale visione della funzione giudiziaria come subordinata al momento politico, caratteristica del marxismo-leninismo non meno che di altre concezioni della vita civile decisamente precedenti (Nanni Moretti se ne faccia una ragione) alla nascita di Forza Italia: «La magistratura – pronunciò Togliatti in un discorso parlamentare del 1963 – è un ordine indipendente: essa, però, non è un ordine sovrano. La sovranità appartiene al popolo e per esso al parlamento».
Fragilità delle istituzioni, egemonia dei giudici
Quel che è successo, in realtà, lo spiega molto bene il libro che cinque anni fa Francesco Misiani ha scritto insieme a Carlo Bonini: La toga rossa – Storia di un giudice. Misiani, “toga rossa” storica e protagonista della rivoluzione di Tangentopoli divorato dalla rivoluzione stessa (è stato allontanato dalla Procura di Roma per le vicende legate al caso Squillante) si vanta apertamente di essere stato un giudice ideologicamente motivato e di aver partecipato all’abbattimento del “sistema”, ma allo stesso tempo illustra con decine di episodi e con una ricostruzione attendibile come la magistratura italiana in questi anni sia largamente uscita dai binari costituzionali per diventare una cosa del tutto diversa dall’“ordine indipendente ma non sovrano” di cui anche Togliatti parlava. All’indomani dell’emergenza terrorismo che aveva catapultato sul palcoscenico della cronaca e dell’attualità politica i giudici, scrive Bonini che «Autonomia ed indipendenza, agli occhi dell’opinione pubblica, si trasformano in altrettanti attributi che non individuano tanto le garanzie di uno dei poteri dello Stato rispetto agli altri, quanto la sua inevitabile prevalenza (corsivo nostro – nda). è un processo evolutivo che si andrà sviluppando negli anni Ottanta, con la lotta alla mafia, e coronerà negli anni Novanta con il pool e la stagione di Tangentopoli». L’egemonia odierna del giudiziario, cui il solo Berlusconi oggi oppone resistenza, è insomma un prodotto storico della fragilità delle istituzioni democratiche italiane, che di fronte alle grandi emergenze del Dopoguerra hanno mostrato la corda e innescato la supplenza della principale istituzione non democratica del sistema. Il Pci, spiega Misiani, ha favorito per ragioni di bottega questa evoluzione: «Il nostro potere di supplenza rispetto all’esecutivo andava crescendo, grazie anche all’appoggio della sinistra e del Pci in primo luogo, che su noi magistrati, o, almeno, su una parte di noi, aveva deciso di investire risorse e attenzione». Ma il Pci si è ritrovato di fatto come l’apprendista stregone: non lui, ma i magistrati “protetti”, hanno beneficiato della rivoluzione. Spiega Misiani che dentro a Md «Tangentopoli mise d’accordo tutti, anche chi come me faticava a risolvere la cosiddetta contraddizione del garantista. Di fatto, Md colse in Mani Pulite l’occasione che si offriva all’intera magistratura di legittimarsi due volte. Innanzitutto, di fronte ad un’opinione pubblica che nel corso degli anni Ottanta aveva lanciato più di un segnale di sfiducia… Inoltre, di legittimarsi come nuovo e unico potere superstite del terremoto cominciato nel ‘92». Più chiaro di così…
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