La trattativa Stato-mafia e le intercettazioni di Riina. Tortorella: «Probabilmente sapeva di essere ascoltato»

Di Francesco Amicone
22 Gennaio 2014
Dopo la pubblicazione dei colloqui del boss in carcere, il vicedirettore di Panorama invita alla prudenza: «Quello che dice può essere potenzialmente vero e potenzialmente falso»

«Non è un mistero che le intercettazioni finiscano sui giornali. Ci abbiamo fatto l’abitudine. Non mi sorprende che sia stato fatto con quelle dell’ex capo dei capi, Totò Riina». Così Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama, commenta la vicenda della pubblicazione delle conversazioni che il boss corleonese tenne lo scorso autunno con l’ex capo della Sacra Corona Unita, Alberto Lorusso. Su quelle “confessioni” avvenute fra le mura del carcere di Opera, nelle quali Riina minaccia il pm dell’inchiesta sulla trattativa stato-mafia, Nino Di Matteo, il vicedirettore di Panorama è prudente: «Quello che dice Riina è potenzialmente vero e potenzialmente falso. Probabilmente sapeva di essere intercettato».

Da cosa lo deduce?
Non è la prima volta che un mafioso viene intercettato in carcere. Difficile che loro non lo sappiano. Figurarsi i capi della mafia. Intorno ai boss di Cosa Nostra, detenuti in isolamento e in regime di 41 bis, sorvegliati giorno e notte, c’è una rete di controllo molto fitta. È molto probabile che le conversazioni, specialmente nei parlatori, ma non solo, possono essere registrate. Penso che Riina fosse consapevole di essere ascoltato mentre parlava con il boss della Sacra corona unita. E se lo sapeva, avrebbe potuto scegliere le parole giuste affinché giungessero fuori dalle mura del carcere.

Con quale fine?
Non si può dire. Riina usa da sempre un linguaggio doppio, che è tipico dei mafiosi. La lettura delle mosse di Cosa Nostra è sempre stata complicata da questa duplicità, tanto da rimanere spesso inintelleggibile. Basta pensare all’attentato dell’Addaura, alla difficoltà di risalire agli esecutori, alle complicazioni dell’epoca delle bombe. Lo stesso omicidio di Salvo Lima fu difficile da comprendere all’inizio, e si scoprirono le motivazioni solo dopo molti anni.

Giuliano Ferrara ipotizza che il boss della Sacra Corona Unita in realtà collabori con qualche apparato dello Stato. Lo crede possibile?
Ci sono meccanismi che rendono davvero difficile a un collaboratore dei servizi finire come compagno di cella di un boss mafioso. A scegliere non è il ministro della giustizia, né il Dap. Sono i magistrati di sorveglianza, la procure anti-mafia, la Dia a gestire i mafiosi in carcere. E non credo che manderebbero un agente dei servizi segreti a controllare Riina.

Qualcuno ipotizza che le dichiarazioni di Riina, ormai in isolamento da 21 anni, servano soltanto a sostenere la traballante teoria accusatoria nel processo Stato-mafia.
Attenzione a dirlo. Il pm Di Matteo è comunque un magistrato che rischia la vita e Riina è stato il più sanguinario mafioso della storia. Non bisogna assolutamente sottovalutare le sue minacce, ma rispondere, aumentando la sicurezza per il pm. Al di là di questo, rimane l’incertezza sulle fondamenta processuali che riguardano la trattativa Stato-mafia.

Dopo le assoluzioni del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, le basi del processo sulla trattativa Stato-mafia hanno subito gravi colpi.
Sono tante le fragilità dell’inchiesta che un tempo aveva il volto di Antonio Ingroia. Su uno di questi aspetti, è intervenuta recentemente anche Ilda Boccassini. La pm milanese ha ricordato di aver fornito nel 1994 una relazione ai magistrati che si occupavano dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, nella quale giungeva alla conclusione che l’ex pentito mafioso, Vincenzo Scarantino, che si era accusato della strage, stesse tentando di depistare le indagini. Era vero. Ma i magistrati che conducevano l’inchiesta non le diedero ascolto. Fra questi, c’era anche il pm Di Matteo.

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