
La tragica assoluzione di Giovanni Mandalà, morto dopo 19 anni di carcere per un «processo contraffatto»
Il 27 gennaio 1976 ad Alcamo (Tp) due giovani carabinieri vennero barbaramente uccisi. Per quell’omicidio, a febbraio di quello stesso anno furono arrestati quattro ragazzi incensurati: i lettori di tempi.it conoscono bene la storia di uno di loro, Giuseppe Gulotta, condannato in via definitiva per l’omicidio, poi assolto dopo aver scontato 22 anni di carcere con un processo di revisione nel 2012 (nella foto sotto nel giorno del verdetto). Successivamente anche altri due degli imputati condannati sono stati assolti da un processo di revisione. E quattro giorni fa, lunedì 17 febbraio, la Corte d’appello di Catania ha messo la parola fine sulla vicenda della strage di Alcamo, assolvendo il quarto degli imputati, Giovanni Mandalà (a destra in una foto d’archivio al momento dell’arresto nel 1976), condannato all’ergastolo nel 1981.
Mandalà, a differenza dei compagni di sventura, non ha potuto essere presente nel momento in cui un tribunale, in nome del popolo italiano, lo ha proclamato innocente con formula piena: è morto in carcere nel 1998, per un tumore, mentre era ritenuto ancora un ergastolano tanto pericoloso da non meritare nemmeno gli arresti domiciliari per le cure mediche. Lunedì al suo posto in aula c’erano la moglie e i legali difensori. Uno di loro, l’avvocato Baldassare Lauria racconta a tempi.it che «questa, a differenza del capitolo di Gulotta che almeno si è chiuso con un lieto fine, è una storiaccia. Credo sia una delle pagine più buie della storia italiana. Non è tanto un errore giudiziario: è una vera contraffazione processuale».
Chi era Giovanni Mandalà, prima di essere coinvolto in questa vicenda?
Nel 1976 Mandalà aveva 32 anni ed era un commerciante di vini, incensurato e sposato. Era amico di Giuseppe Gulotta. E possedeva una Fiat 124, la sua sventura.
Anche per quella macchina, infatti, Mandalà fu accusato di avere ucciso i carabinieri di Alcamo.
Dopo la strage un camionista aveva raccontato di essere passato vicino la caserma poco prima del delitto e di aver notato Fiat 124, proprio lo stesso modello in possesso di Mandalà. Mandalà, come Gulotta e gli altri, venne coinvolto nella strage, inoltre, per la testimonianza di un ragazzo, Giuseppe Vesco. Era stato fermato dai carabinieri perché nella sua auto era stata trovata una pistola, dello stesso modello in dotazione ai carabinieri uccisi, derubati dopo la strage delle loro armi. Vesco confessò di essere il responsabile della strage, insieme a Gulotta, Mandalà e agli altri. Si suicidò in carcere un anno dopo. Solo grazie alla revisione del processo a Gulotta si è scoperto, con la testimonianza di un carabiniere pentito che aveva partecipato a quell’indagine, che la confessione di Vesco era stata estorta con la tortura. Ma nel caso di Mandalà, c’era un’altra “prova” ad incastrarlo, oltre alla confessione di Vesco.
Quale prova?
Su una giacca sequestrata a casa di Mandalà era stata trovata una macchia di sangue, dello stesso gruppo sanguigno di una delle vittime, il carabiniere Carmine Apuzzo. Si trattava di un gruppo sanguigno rarissimo, come sottolineò una perizia nel corso del processo di primo grado, «a cui appartiene solo lo 0,08 per cento della popolazione caucasica». Anche la Corte d’appello nel 1985 ritenne che quella fosse una «prova schiacciante» e per Mandalà la condanna all’ergastolo divenne definitiva.
Lei però non ha mai creduto a questa versione dei fatti, come mai?
Avevo iniziato a seguire il caso di Gulotta e mi ero reso conto che il processo era stato condotto nell’irregolarità più assoluta. Nei confronti di Mandalà le cose che non tornavano erano molte. Tanto per cominciare, la giacca in questione era un modello estivo, ma la strage era avvenuta in pieno inverno: perché Mandalà avrebbe dovuto indossarla? Poi mi aveva colpito, per esempio, che durante il processo di primo grado era stata disposta una perizia sulla giacca. Ma al momento in cui la Corte fece aprire il contenitore della giacca, l’indumento non c’era. La ritrovarono improvvisamente un anno dopo. Iniziai allora ad approfondire, e indagando scoprii che anche un parente stretto di Mandalà, che abitava per altro proprio sopra la casa dell’uomo, aveva lo stesso gruppo sanguigno del carabiniere ucciso. È evidente allora che quella macchia di sangue non poteva appartenere con certezza al carabiniere. Poi strada facendo abbiamo scoperto altre cose ben più gravi.
Cosa avete scoperto?
Abbiamo trovato la prova che la macchia sulla giacca poteva essere stata falsificata nelle indagini dai carabinieri. Analizzando i verbali delle frettolose indagini precedenti agli arresti, abbiamo scoperto che i carabinieri avevano conservato due provette con il sangue delle vittime. Non è stato possibile eseguire una nuova e più approfondita perizia sulla giacca, ad esempio un esame del dna, perché l’indumento è stato distrutto nel 1997. Ma i documenti che abbiamo prodotto, uniti alle testimonianze dei carabinieri pentiti, hanno fatto capire ai giudici come stavano le cose. Lunedì scorso su richiesta dello stesso procuratore generale, cioè dell’accusa, Mandalà è stato assolto. Quello che all’epoca era sembrato un verdetto schiacciante si è sciolto come neve al sole. Uno dei giudici a latere aveva le lacrime agli occhi alla lettura della sentenza.
C’è qualcosa che l’ha colpita, nella richiesta di assoluzione di Mandalà avanzata dalla stessa accusa?
Sì. Innanzitutto il fatto che il procuratore ha detto alla Corte: «Che qualcosa in questo processo è andato lo storto lo vedete dal fatto che la condanna si basa solo su elementi indiziari». È stato il procuratore generale stesso a rivelare infatti che anche sulla famosa Fiat 124 di Mandalà non si era detta tutta la verità nel processo. Il camionista aveva dichiarato di aver visto l’auto vicino alla caserma anche la mattina dopo alla strage, ma questo aspetto non era stato considerato per nulla dai giudici. Quell’auto apparteneva a uno dei carabinieri uccisi. Mi ha anche colpito la conclusione della requisitoria dell’accusa: il procuratore generale ha detto che «sono orgoglioso di appartenere a uno Stato democratico che mi impone di chiedere l’assoluzione quando gli elementi sono dubbi o irrimediabilmente contraddittori, a prescindere dalle mie convinzioni»: l’accusa ha chiesto per Mandalà l’assoluzione con formula dubitativa, nel principio che “in dubio pro reo”. La Corte invece l’ha assolto con formula piena. Non c’è più alcuna ombra di dubbio sull’innocenza di quest’uomo.
Perché le prove contro di lui sarebbero state falsificate?
Ce lo siamo chiesti anche noi difensori. Innanzitutto va detto che la strage di Alcamo è maturata in un contesto storico molto delicato. A Trapani, a poca distanza da Alcamo, in quel periodo c’era un campo di addestramento dell’organizzazione Gladio, l’intera provincia era infestata dalla criminalità organizzata. Inoltre proprio negli stessi giorni c’erano stati due sequestri di persona, e si ipotizza che l’uccisione dei carabinieri fosse legata a tutti questi fatti. All’epoca però le indagini, condotte da altri carabinieri, andavano chiuse subito. Quella strage era stata un colpo duro per l’Arma. A me personalmente resta una convinzione: non è tanto la giustizia che non funziona. Ma la società. Ho delle domande ancora aperte.
Quali?
Mandalà è stato in carcere diciannove anni, fino alla morte. È deceduto perché divorato da un tumore alla prostata, ma non gli hanno mai concesso i domiciliari perché era ritenuto ergastolano pericolosissimo. Com’è possibile, adesso che si scopre la sua innocenza dopo quella di Gulotta e degli altri, che nessuno, né il Guardasigilli né il presidente della Repubblica e neanche il comando dei carabinieri, chieda scusa a queste persone? Quella di Alcamo è una strage che ha sei vittime. I due carabinieri uccisi e quattro falsi colpevoli, oggi tutti assolti dopo 36 anni.
Mandalà non era in aula lunedì, al posto suo c’era la moglie. Come ha reagito alla lettura della sentenza?
La moglie gli è sempre stata al fianco perché lo ha sempre creduto innocente. Era una ragazza bellissima quando il marito fu arrestato. Oggi ha 62 anni ed è vedova. Lunedì è scoppiata in lacrime e mi ha colpito vedere che il procuratore generale è corso ad abbracciarla. Poi la signora Mandalà mi ha detto: «Io avevo promesso a mio marito che non avrei mai chiuso gli occhi, che non sarei mai morta senza che lui venisse riconosciuto innocente».
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8 commenti
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E per Contrada cosa aspettano per la revisione del processo? Che sia morto?
Non è il primo caso, un allevatore sardo emigrato in Toscana, condannato all’ergastolo, perchè un suo ex dipendente (forse cacciato perchè poco di buono), lo accusa di essere suo complice in un sequestro di persona, il delatore colto sul fatto viene premiato ed ha un notevole sconto di pena, l’allevatore senza alcun riscontro ma semplicemente sulla chiamata in correo(di chi ne trae beneficio) viene condannato a 30 anni, dopo circa 15 anni di detenzione vengono arrestati due ricercati e tra le altre cose, dopo lungo processo, vengono condannati anche per il sequestro per il quale fu condannato l’allevatore sardo, le due cose erano chiaramente incompatibili, per cui se i complici di colui che fu colto in flagrante erano questi due, quello condannato circa 20 anni prima era innocente. Ma se sei condannato in forma definitiva non può essere rimesso in libertà facilmente, è necessario richiedere la Revisione del processo a fronte di nuove prove sostanziali emerse, e la revisione non viene concessa in automatico, tant’è che il signore in questione dovette aspettare diversi anni, poi ci sono i tempi del processo, per dirla breve, dopo 25 anni gli furono assegnati gi arresti domiciliari, a causa di un problema al cuore e al 28esimo anno, mentre era ricoverato in ospedale arrivò la sentenza di Assoluzione Piena, per non aver commesso il fatto.
Relativamente all’attendendibilità dell’accusa, il soggetto dopo soltanto una decina d’anni fu rimesso in libertà e poi fu trovato ammazzato nella periferia di Roma, si disse regolamento di conti tra criminali, se questo era un soggetto da predendere in considerazione?
A parte che a mio avviso non si dovrebbe mai condannare soltanto su testimonianza, sia perchè la memoria fa brutti scherzi, sia perchè se il soggetto delatore ne ha un beneficio non indifferente, figuriamoci che gli frega di mandare in galera un innocente se gli fanno uno sconto di 10 o più anni.
La giustizia italiana a volte è strana.
Da precisare che sia in Prima Istanza che in Apello il signore in questione fu assolto, ma l’accusa non si arrese e chiamò in causa la Cassazione la quale dispose la ripetizione del processo, e finalmente al terzo processo l’innocente fu condannato.
Storia incredibile, umanamente imperdonabile a chi ha sbagliato.
Giù il cappello davanti alla Signora Mandalà. Una Donna e una Moglie.
Per queste cose non sarebbe male un monumento alla vergogna nazionale in qualche comune, dove porvi almeno i nomi di così barbari riti processuali in Italia.
Tutti dovrebbero poter ricordare che paese é questo e i nomi delle sue vittime innocenti. Ci vorrebbe un sindaco coraggioso: monumento all’ingiustizia nazionale.
un monumento ai caduti di una guerra (con morti e devastazione) che la giustizia muove ai cittadini
Già: il Sindaco di Alcamo dovrebbe erigere un monumento alla memoria di Giovanni Mandalà, con sotto scritto “Alle vittime delle inefficienze giudiziarie italiane”.