
La svolta ideologica ultrapatriottica di Macron
Se il discorso che Emmanuel Macron ha tenuto per commemorare l’eroe di Trèbes, il tenente colonnello Arnaud Beltrame trucidato da un terrorista dopo aver preso il posto di un ostaggio, non è soltanto una concessione retorica alla commozione che ha investito tutta la Francia all’indomani del sacrificio di un suo figlio in divisa, siamo davanti a uno spettacolare cambio di rotta.
Il presidente talmente europeista da far suonare l’Inno alla Gioia di Beethoven prima della Marsigliese la sera della sua elezione, ha messo al centro della dedizione civica la Francia, e non già nei termini materialisti e mercantili dell’”America First!” di Donald Trump, ma in quelli mistici della patria per la quale è giusto sacrificare la vita; il politico che in un comizio a Lione aveva affermato che «non esiste la cultura francese ma una cultura in Francia, diversa e molteplice» ha esaltato e proposto all’imitazione la lunga serie di eroi nazionali francesi che vanno da Giovanna d’Arco ai combattenti della Prima Guerra mondiale ai resistenti dell’occupazione nazista ai compagni d’arme di Charles De Gaulle.
Il leader talmente progressista e sospettoso di ogni tradizione che ha voluto chiamare En Marche! (In Movimento!) il suo partito si è trasformato nel cantore delle radici e del passato. Per rendersene conto è sufficiente leggere alcuni brani del suo discorso nel cortile d’onore dell’Hotel des Invalides:
«I francesi non dimenticano il tributo pagato da tutte le nostre forze di sicurezza sul suolo nazionale, e dalle nostre forze armate all’estero. Tutti loro hanno diritto al nostro rispetto incondizionato. E tutti – lo so – condividono la certezza profonda che animava il tenente colonnello Beltrame: quella che il suo destino non gli apparteneva affatto, che aveva stretto un patto con qualcosa di più grande di sé. Perché si era assunto un impegno, e aveva giurato di fare un tutt’uno con un ideale più grande e più alto. E questo ideale era il servizio alla Francia. Dal momento che abbiamo appreso il suo gesto, noi tutti francesi abbiamo avvertito un brivido singolare. Uno fra noi si era alzato. Retto, lucido, coraggioso, faceva fronte all’aggressione islamista, all’odio, alla follia assassina, e con lui sorgeva dal cuore del paese lo spirito francese di resistenza, per il coraggio di uno solo che trascinava tutta la Nazione al suo seguito. Questa determinazione inflessibile di fronte al nichilismo barbaro ha evocato alla nostra memoria le figure solenni di Jean Moulin, di Pierre Brossolette, dei Martiri di Vercors e dei combattenti partigiani. Improvvisamente si sono sollevate oscuramente nello spirito di tutti i francesi le ombre cavalleresche dei cavalieri di Reims e di Patay, degli eroi anonimi di Verdun e dei Giusti, dei compagni di Giovanna e di quelli di Kieffer – infine, di tutte queste donne e di tutti questi uomini che un giorno avevano deciso che la Francia, la libertà francese, non sarebbe sopravvissuta che al prezzo della loro vita, e che ne valeva la pena».
E poi verso la fine dell’intervento:
«Mentre il nome del suo assassino già sprofondava nell’oblìo, il nome di Arnaud Beltrame diventava quello dell’eroismo francese, portatore di questo spirito di resistenza che è l’affermazione suprema di ciò che noi siamo, di ciò per cui la Francia si è sempre battuta, da Giovanna d’Arco al generale De Gaulle: la sua indipendenza, la sua libertà, il suo spirito di tolleranza e di pace contro tutte le egemonie, tutti i fanatismi, tutti i totalitarismi. Possa il suo impegno nutrire la vocazione di tutta la nostra gioventù, svegliare questo desiderio di servire a propria volta questa Francia per la quale uno dei suoi migliori figli, dopo tanti altri, ha donato eroicamente la propria vita, gridando in faccia agli addormentati, agli scettici, ai pessimisti: sì, la Francia merita che le si doni il meglio di sé; sì, l’impegno di servire e di proteggere può andare fino al sacrificio supremo; sì, questo ha senso e dona senso alla nostra vita. E dico a questa gioventù di Francia, che cerca la sua strada e il suo posto, che ha paura dell’avvenire, e che dispera di trovare nel nostro tempo di che saziare la sua fame di assoluto, che è quella di ogni giovinezza: l’assoluto è qui, davanti a noi. Ma non è nel fanatismo deviato, al quale vogliono trascinarci gli adepti del nulla, non è nel relativismo triste che alcuni altri propongono. È nel servizio, nel dono di sé, nel soccorso portato agli altri, nell’impegno per gli altri, che rende utili, che rende migliori, che fa crescere e avanzare».
Macron spazza via il relativismo e lo sostituisce con un pensiero forte, fortissimo: quello secondo cui il senso della vita per un francese è sacrificare la propria vita per la Francia. Il sacrificio della propria vita per salvarne un’altra (quella di un ostaggio) non è che una declinazione della più grande missione di dare la vita per la Francia. Il senso della vita è la trascendenza di sé (nel discorso a proposito della concezione della vita che aveva Arnaud Beltrame ha menzionato «la trascendenza che lo spingeva») al servizio della vita di qualcun altro, perché «niente è più importante della vita di un concittadino».
Il più grande dei valori è l’indipendenza della Francia, come dimostra la successione di nomi di eroi che Macron pronuncia: si va da Giovanna d’Arco e i suoi compagni che grazie anche alla vittoria nella battaglia di Patay resero possibile l’incoronazione anti-inglese di Carlo VII a Reims, ai caduti di Verdun nella Prima Guerra mondiale che sbarrarono il passo ai tedeschi che puntavano su Parigi, agli eroi della Resistenza nella Francia occupata dai nazisti (Moulin, Brossolette, i partigiani di Vercors), agli uomini dell’Esercito francese di liberazione che come il comandante Kieffer presero parte allo sbarco di Normandia.
Se i riferimenti ai partigiani della Seconda Guerra mondiale, ai compagni di De Gaulle e a Giovanna d’Arco sono abbastanza scontati e largamente condivisi da tutti i francesi, più problematico ma anche più significativo della svolta ideologica di Macron è il riferimento agli “eroi anonimi di Verdun”, caduti in una delle più sanguinose battaglie della Prima Guerra mondiale. In nome della dottrina militare elaborata dopo le sconfitte del 1870 per mano prussiana, i generali francesi mandarono al massacro fra i 160 e i 250 mila soldati, costretti a tenere le posizioni sotto un diluvio di fuoco di artiglieria perché non bisognava mai arretrare di fronte ai tedeschi e lasciare loro il più piccolo brandello di territorio francese. Dopo il Sessantotto e nel contesto della pacificazione franco-tedesca, culminata con la stretta di mano fra il presidente Mitterrand e il cancelliere Kohl nel 1984 a Douaumont, località facente parte della zona della battaglia, Verdun ha assunto piuttosto il significato della strage inutile, della riduzione dei soldati a carne da cannone, del fanatismo ideologico degli alti gradi dell’esercito.
Con il suo discorso Macron riporta in vigore la simbologia di Verdun che il Sessantotto aveva messo in crisi e il riavvicinamento franco-tedesco consegnato agli archivi. Mentre non ha fatto il benché minimo accenno alla professione di fede cristiana dell’eroe Beltrame, e quindi all’evangelico concetto del “dare la vita per i propri amici”, il presidente ha riabilitato il culto degli eroi spersonalizzati della Prima guerra mondiale, sacrificati nell’enorme olocausto di una guerra condotta con mezzi industriali, dove le qualità personali dei combattenti non contano più nulla e l’individualità si scioglie nel massacro collettivo.
Foto Ansa
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