
La strage delle missionarie in Burundi e una domanda nella notte africana: cosa muove davvero queste strane persone?
La strage delle missionarie in Burundi mi ha ricordato una notte passata a Gulu, in Uganda, in una missione comboniana al confine della regione insanguinata dal Lord’s Resistance Army.
Mi fecero dormire al piano terreno. Attorno la savana, e una boscaglia fitta che col tramonto sprofondò in un buio nero come l’inchiostro. Né strade, né luci, né case: ma soltanto la notte, e versi aspri di animali, e gracidii, e canti di uccelli sconosciuti. O passi, forse? Quegli scricchiolii non erano passi?
Nelle ore insonni mi accorsi di come le mie certezze di occidentale, le libertà, i diritti, fossero sospesi a un filo, a un nulla, dentro a una notte africana. E al mattino osservai i missionari con un nuovo stupore: strani uomini, mi dicevo, non capendo veramente che cosa li aveva portati laggiù.
Ieri ho intervistato una suora bresciana delle Ancelle della Carità che ha riaperto in Burundi, a Kiremba, una missione chiusa dopo l’assassinio, tre anni fa, di una sorella e di un volontario. Non ha paura, dopo quel che è successo pochi giorni fa proprio in Burundi?, le ho chiesto. Sì, ha risposto, «ma non posso ammettere che la morte sia l’ultima parola. E poi, come fanno le madri con i figli? Perdonano, e ricominciano sempre».
Allora forse un po’ ho capito cosa spinge i missionari. Una paternità, una maternità verginale e sbalorditivamente accresciuta. Come se quelli là, laggiù, gli ultimi, fossero tutti e ciascuno figli loro.
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