
La strada del perdono: da vittima a persona

Rimini. Quando hai 25 anni e tuo padre viene ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia, i sentimenti che prevalgono non possono che essere «rabbia, dolore, disperazione, odio e la percezione di un’assenza pesante che fa star male». È questo quello che ha provato Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, segretario della Dc, ucciso il 9 maggio 1978 durante gli anni di piombo. Ieri sera, in uno degli incontri più seguiti di questa edizione del Meeting, ha tenuto una testimonianza incredibile: «Nessuno sa cos’è la giustizia, ma tutti sappiamo quando non ce l’abbiamo. La società ti offre la strada della giustizia penale. Ma non basta».
«BISOGNO DI FARE DOMANDE». Ovviamente «è importante che la società riconosca che un comportamento sbagliato è tale, e tante volte nel caso di mio padre non è successo, però la giustizia penale non ti dà ciò di cui hai disperato bisogno: fare domande, rimproverare, chiedere come è stato possibile, come hai potuto puntare la sveglia la mattina, sapendo che saresti andato a uccidere qualcuno. Queste domande non puoi farle, perché davanti non hai nessuno».
IL LIBRO DELL’INCONTRO. Questo vale per i familiari di vittime della lotta armata di quegli anni e per i partecipanti della lotta armata. Ma non per tutti. Qualcuno, tra cui Agnese Moro, ha infatti potuto fare quelle domande e ha avuto il coraggio di ascoltare le risposte grazie agli incontri tra vittime e autori di reati proposti e condotti da diversi mediatori da sette anni a questa parte. Le esperienze di alcune decine di persone che hanno accettato di «riaprire la ferita» sono state raccolte ne “Il libro dell’incontro”, curato dal padre gesuita Guido Bertagna, dalla giurista Claudia Mazzuccato e dal criminologo Adolfo Ceretti.
«RENDERE ASCOLTABILE L’INDICIBILE». Ceretti, insieme agli altri autore e promotore degli incontri, presente alla conferenza del Meeting, ha sottolineato che non si tratta di «conciliare posizioni incommensurabili», né di perdono, ma di «rendere ascoltabile l’indicibile» e permettere alle parti di raccontarsi per «iniziare a comprendere l’altro secondo una prospettiva nuova, partendo dal presupposto della comune appartenenza alla natura umana». «Noi abbiamo incoraggiato un incontro in uno spazio protetto», ha aggiunto, «che consentisse di far emergere il contenuto dei soliloqui che caratterizzano pressoché sempre la vita di chi ha commesso reati così gravi e di chi ne è divenuto vittima».
«MA CHI TE CONOSCE?». Quando ad Agnese padre Guido ha proposto questo incontro, però, la risposta è stata netta: «No. Ma cosa vuoi? Ma chi ti conosce? Non volevo, perché fare una cosa del genere è un guaio, significa cambiare la tua vita, mettere tutto in disordine». Soprattutto significa intraprendere una trasformazione dolorosa: quella da oggetto a persona. «La cosa più triste e orrenda della violenza», continua Agnese Moro, «è che trasforma le persone in cose, in oggetti. Le vittime sono nemici per i carnefici, e gli autori della violenza sono nemici per i familiari delle vittime. E il nemico è una cosa e le cose non dialogano. Per riaprire una strada compromessa in maniera grave da atti unilaterali bisogna tornare a essere persone. Non più semplici vittime. Devono saltare le gabbie. Durante questi incontri quelle gabbie sono saltate».
«MOSTRI MA UMANI». Agnese alla fine si è fidata di chi le ha proposto gli incontri, gli stessi che «hanno sopportato le litigate, i pianti, le grida, gli abbracci, il desiderio di andarsene», ed è rimasta sconvolta: «Siccome gli autori delle violenze si erano comportati da mostri, io pensavo che loro fossero solo dei mostri. Invece ho scoperto che erano esseri umani, pieni di umanità come me». Come Franco Bonisoli, che partecipò al sequestro di Aldo Moro: «Parlando con lui scoprii che usava i permessi in carcere per andare a parlare con i professori di suo figlio. Quasi nessun padre lo fa. Per me è stato uno shock, ho pensato: “Ma allora è umano. Allora anche lui soffre. Allora io non ho il monopolio del dolore”».
«NON VOLEVO RICOMINCIARE». Il percorso è duro anche per chi ha commesso violenze. Come Maria Grazia Grena, tra i leader dei Colp, Comunisti organizzati per la liberazione del proletariato, che al Meeting ha raccontato: «Anch’io all’inizio ho rifiutato di partecipare agli incontri perché ero convinta, ma sbagliavo, di aver messo il passato al suo posto. Avevo scontato la mia pena, mi ero riabilitata, avevo ritrovato mio marito, avevo fatto un figlio. Mi hanno contattata nel 2010, io ero uscita dal carcere nel 1990, non volevo ricominciare tutto da capo».
«VOLEVAMO LA VITA, CAUSAMMO LA MORTE». Poi ha accettato e ha scoperto che «anche le mie azioni avevano causato delle vittime. Non avevo fatto del tutto i conti con il mio passato. Avevo bisogno di capire come fosse possibile, partendo da un grande desiderio di giustizia sociale, trasformare il nostro agire in un’ingiustizia ancora più grande. Lo strumento era diventato un fine e noi, operando violenza, avevamo rinunciato a quell’umanità che ci aveva preceduto nel muoverci. Scoprire questo è stato difficile ma utile. Volevamo la vita e abbiamo causato la morte. Però volevamo la vita! Ritrovare quelle prime motivazioni, poi degenerate, è stato importante per continuare a vivere».
L’URLO. Durante gli incontri, «quando ho sentito l’urlo di chi chiedeva “perché” non avevo risposte», continua Grena. «L’unica cosa che ho potuto fare è stato accogliere quell’urlo. Non è stato semplice, ma importante per convivere con quella che sono stata. Io non so se sono cambiata, di certo ho raggiunto grandi livelli di consapevolezza. Ho ritrovato anche quella stessa passione che mi muoveva quando a 20 anni ho distrutto la mia vita e quella degli altri».
RINASCERE INSIEME. Così lentamente, «soffrendo», sia Maria Grazia Grena che Agnese Moro si sono «decosizzate», diventando «più libere dal passato che ha ingoiato tutta la vita». La figlia di Aldo Moro conclude: «Ci sono ferite che non guariranno mai, un orrore puro che non posso neanche nominare. Ma queste cose sono passate. Ho scoperto che coloro che sono stati mostri oggi sono belle persone e queste sono contraddizioni insanabili. Ma io sono rinata insieme a loro, insieme siamo tornati esseri umani vivi. La capacità di esprimere cosa ho dentro è già un pezzetto di quella giustizia che andavo cercando e che spero di poter trovare definitivamente un giorno».
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