La sinistra falce e manette. Intervista a Ottaviano Del Turco

Di Chiara Rizzo
30 Settembre 2011
Del Turco contro i colpevoli silenzi democratici su sanitopoli Abruzzo e su Penati. L’asse con Vendola e Di Pietro? «Una caricatura del fronte popolare». Ecco perché un riformista ex Pd oggi ha più motivi per criticare la Cgil che non Sacconi e Tremonti. Pubblichiamo l'intervista che appare sul numero di Tempi (39/2011) in edicola

Se questa conversazione con Ottaviano Del Turco, ex presidente democratico della Regione Abruzzo, già segretario del Psi post-Tangentopoli e prima ancora sindacalista della Fiom-Cgil, fosse un libro, si intitolerebbe “Confessioni di un socialista riformista”. Sulla prima pagina porterebbe in dedica agli ex compagni del Pd il monito di Pietro Nenni: chi gioca a fare il più puro tra i puri, alla fine trova sempre qualcuno più puro che lo epura. L’incipit è questo: «Fu Romano Prodi a chiedermi di entrare nel gruppo dei 45 che diedero vita al Partito democratico. La motivazione aveva un suo fascino politico: bisognava impedire che il partito nuovo fosse la somma dei due vecchi apparati, Pci e Dc. In realtà Prodi si sbagliava: ciò che è nato è stato esattamente quel che si voleva evitare che nascesse. Un partito che sommava la tradizione giustizialista del Pci con quella dei popolari e dei cattolici, rappresentata dall’ossessione verso i socialisti di Rosy Bindi. Nei giorni che seguirono il mio arresto fu chiaro che non c’era spazio per me in quel partito. E ne sono uscito, evitando almeno l’umiliazione toccata a Penati, con un gran sinedrio politico che si sostituisce al giudizio della magistratura. Il silenzio del Pd, l’imbarazzo con cui balbettarono frasi di circostanza mi apparvero allora difficili da capire. Li conoscevo tutti e tutti conoscevano me. Dopo i fatti di queste ultime settimane, mi è più chiaro. Comprendo il valore di quel silenzio, e il perché un partito che si definisce riformista continua ad essere il più giustizialista di tutti. Evidentemente hanno i loro scheletri negli armadi, per cui è meglio che stiano zitti».

Il riferimento è alla bufera che travolge Filippo Penati, e alla vicenda giudiziaria che ha segnato il brusco stop dell’attività politica di Del Turco, la cosiddetta “sanitopoli Abruzzo”, per la quale l’ex governatore oggi è imputato a Pescara. Un caso oggi accantonato dalla grande stampa, forse perché, giunta in aula, sanitopoli Abruzzo ha rivelato diverse lacune nelle accuse. Si è ben lontani ormai dai toni trionfali con cui il procuratore capo di Pescara, Nicola Trifuoggi, nella conferenza stampa all’indomani dell’arresto di Del Turco, nel luglio 2008, celebrava la «valanga di prove schiaccianti» a carico del governatore.

Tre anni dopo quello stop, Del Turco coltiva ancora la passione politica, anche su Facebook, dove è in quotidiano contatto con una rete di 3.700 persone. Commenta le notizie, tira stoccate, lancia domande, è instancabile. Molti di quegli “amici” sono l’espressione vivace ma sconosciuta di una sinistra diversa, un popolo socialista che non si riconosce sempre nelle scelte del partito e, dice Del Turco, «che non vuole arrendersi al fronte popolare nato a Vasto dall’improvvido incontro tra Pier Luigi Bersani, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola».

Il posto dei socialisti
Ma questo movimento sotterraneo può rappresentare il futuro di una sinistra diversa, di una sinistra riformista? «Si tratta di storie socialiste esemplari che non si sentono rappresentate e che prendono atto con rammarico del fallimento dell’illusione di Prodi. Io penso però che oggi stiamo superando la struttura di rappresentanza politica tradizionale che si è riconosciuta nei partiti. Secondo me queste persone hanno un grande ruolo da svolgere facendo vivere la cultura dei riformisti nei sindacati, nella scuola, nelle università, nelle imprese. Il posto dei socialisti e dei riformisti sta in tutti questi luoghi della società, non nei partiti».

Incontriamo Del Turco in una mattina settembrina, al Pantheon, dove la Cgil ha montato un presidio contro il governo. Del Turco indica lo slogan sul palco: “La crisi è una cosa seria, il Governo no”. «Hanno ragione, la crisi è una cosa seria. Ma la risposta che la Cgil ha dato con lo sciopero del 6 settembre è stata un vero fallimento, una mossa da sindacato ottocentesco». È solo il calcio d’inizio della riflessione sul ruolo ricoperto oggi dalla Cgil. «Quando arrivai nella Fiom-Cgil, nel ’66, ebbi la possibilità di osservare il fenomeno sociale più bello della mia vita. Un intero popolo che rialzava la testa e guardava in faccia i propri datori di lavoro. Solo che i protagonisti dell’insurrezione operaia di allora sono gli stessi che oggi stanno sotto le insegne del sindacato pensionati italiani, che raccoglie più di metà degli iscritti della Cgil. Ecco perché il sistema pensioni adesso è un tabù per la Cgil». Proprio da una riforma delle pensioni, però, vorrebbe ripartire il governo per il rilancio dell’economia: nel mirino ci sono le pensioni di anzianità, da usare come “cassa” per la riduzione dei costi del lavoro e per incentivare l’occupazione e la previdenza per i giovani. Del Turco è d’accordo. «Chiunque voglia affrontare le dimensioni ciclopiche di questa crisi sa che il nodo del costo del welfare italiano è ineludibile. Non per forza bisogna parlare di rinunce, ma proporre scambi. Oggi in discussione infatti c’è l’età in cui si ha il diritto di accedere al trattamento previdenziale, ma questo la Cgil non lo capisce. La Cgil ha in mente una figura di lavoratore che nella realtà non esiste più: un dipendente che entra nel mercato del lavoro a diciotto anni con contratto regolare e ne esce solo da pensionato. Questa illusione, che è stata la molla della mia generazione, non ha più senso. C’è da fare i conti con i contratti precari e con il popolo delle partite Iva, su cui si regge il terziario. Non si tratta per i sindacati di voltare pagina, ma più coraggiosamente di cambiare libro».

Dove sono le controproposte?
Quindi cosa si dovrebbe fare concretamente secondo Del Turco? «I sindacati devono fare i conti con le grandi idee che hanno scosso tutti i loro pregiudizi ideologici, come quelle di Ezio Tarantelli all’epoca della scala mobile, e poi quelle di Marco Biagi. Oggi ci sono quelle di Pietro Ichino: penso che una riflessione sulla flexsecurity (sì ai contratti flessibili in cambio di un sistema previdenziale e di garanzie esteso a tutti i lavoratori, anche quelli “precari”, ndr) sia indispensabile. E tutte le novità introdotte nei casi di Pomigliano, Melfi, Brino e Mirafiori sono il prodotto di un nuovo protagonismo delle strutture aziendali, che porta ineluttabilmente al superamento dei contratti collettivi di lavoro. Penso che Maurizio Sacconi abbia scelto coraggiosamente questa strada». Al ministro del Welfare, però, si contesta di puntare troppo sulla flessibilità per le aziende e troppo poco sulle garanzie per tutti i precari: non è sbilanciato? «No, in lui il sindacato ha un interlocutore. È possibile trovare compromessi accettabili. E che la Cgil, solo due giorni prima dello sciopero già proclamato, abbia fatto diventare l’articolo 8 una sorta di peccato mortale mi fa pensare a una mossa ottocentesca. Anzi, mi ricorda ciò che avvenne nel 1984 con il referendum sulla scala mobile».

In trattoria Del Turco ordina una bistecca con le verdure. Lui non beve, non fuma e mangia in modo frugale: un socialista “monacale”. Però ha il vizio della battuta pungente. La conversazione si sposta su un altro ex socialista, oggi al governo, Giulio Tremonti. Riuscito nell’impresa titanica di mettere tutti d’accordo: ha raccolto armonicamente critiche nella maggioranza e nell’opposizione, tanto tra i sindacati quanto in Confindustria. Solo con Del Turco non ci è riuscito: «La cosa sorprendente è che non si è letta una sola proposta alternativa a Tremonti. Persino il tentativo di aprire un canale privilegiato con la Cina per difendere il debito pubblico e immettere le nostre aziende più grandi (Eni, Enel e Finmeccanica) in un mercato internazionale più vasto, è stato trattato con dissenso e sarcasmo. A me invece sembra una proposta valida. Secondo me occorre essere coraggiosi nell’aiutare le grandi imprese a dialogare con paesi come l’India e la Cina, sbocchi interessanti. Tremonti semmai va incoraggiato. E vedo bene la privatizzazione delle municipalizzate, salvaguardando i settori trasporti e comunicazione. Invece ho visto nelle reazioni contrarie solo un grande statalismo di ritorno. E non solo a sinistra. Lottare contro questi conservatorismi è proprio la funzione di noi riformisti».

Intanto, però, è il governo Berlusconi a lottare per la sopravvivenza. Ce la farà? «Non lo so, però mi chiedo come possa essere capace di affrontare questa tempesta mondiale un governo fatto di tecnici, che hanno a disposizione giornali e riviste per dire la loro opinione, ma escludo abbiano l’autorevolezza politica per praticarla». Di chi parla, scusi? «Penso a Monti, Montezemolo, Della Valle, Passera: persone che generalmente non vogliono essere elette dal popolo. Però chiedono sempre di essere nominate dal presidente della Repubblica».

«Berlusconi? Ci ha salvato»
Il Pd tende una mano e offre l’opportunità di un governo di transizione guidato da Angelino Alfano. Lei che ne pensa? «Che è come quando c’era sempre un democristiano meglio di quello al governo. È un’idea che gira da un po’ per distruggere il Pdl. Mi ricorda quello che succedeva nel Pci: dato che Craxi era incontenibile, sbocciò l’amore per De Mita». In alternativa, a sinistra, c’è sempre il fronte di Vasto. «Se si pensa che la risposta alla crisi sia quella caricatura del fronte popolare, con Bersani-Di Pietro-Vendola a braccetto, vuol dire che non si ha un’idea della crisi e di quanto sia complicato governarla. Un fronte popolare che ha come simbolo falce e manette non farà molta strada». Ma com’è che Del Turco parla come un pidiellino? Starà mica pensando di traghettarsi nel Pdl? «No. Ma io continuo ad ammirare Berlusconi». Anche ora che è nella bufera sputtanopoli? «Sì, perché Berlusconi ha il merito storico di aver impedito che la crisi dei riformisti e di Craxi portasse alla vittoria della gioiosa macchina da guerra di Occhetto. E lo dico io che ho contribuito a crearla. Sono felice che ci abbia salvato. Ora penso che abbia ragione Giuliano Ferrara: Berlusconi farebbe bene a chiedere scusa».

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