
La sfera la croce e l’elefante
Mons. Francesco Ventorino. L’anno scorso, Giuliano Ferrara pubblicò sul Foglio un intervento sull’educazione di monsignor Caffarra, allora neoarcivescovo di Bologna, che suscitò le ire di molti laici, fra cui Massimo Cacciari, perché “osava” dire che «l’educazione è l’introduzione di una persona nella realtà», ma soprattutto che «l’ambiente culturale in cui siamo immersi rende ciò impossibile, addirittura impensabile». A giustificazione dell’operazione editoriale che aveva fatto, Ferrara scriveva, riferendosi a Cacciari: «Siamo certi che, letto il testo integrale, il filosofo veneziano saprà emendarsi dall’improvvisazione, saprà domandarsi che cosa significa e di quanta laica benedizione sia portatore il fenomeno di una Chiesa che pensa, che pensa forte in un mondo abbandonato dall’ombra del pensiero»; successivamente, parlando sempre di questo mondo abbandonato dall’ombra del pensiero, Giuliano Ferrara diceva: «Questo mondo è caratterizzato dal rifiuto della ragione non come tecnica o come proiezione del soggetto dell’io divinizzato ma come ragione degli antichi, che si intreccia e dialoga con la natura ed è caratterizzato dal rifiuto della libertà dell’io che si specchia nell’autorità del mondo, nel magistero della realtà».
Questi concetti mi hanno colpito; sono affermazioni che non possono non renderti simpatico l’uomo che le pronuncia, oggi, e che lo fa ad alta voce. Così ho cercato di incontrarlo e ho avuto questo primo incontro in un pranzo, che è durato quasi tre ore, in cui ci siamo raccontati la vita. Nel corso di questo pranzo è scaturito l’invito a questo incontro. Presentiamo questa sera Il rischio educativo di don Luigi Giussani nell’ultima edizione pubblicata dalla Rizzoli (la prima risale agli anni Settanta!). (.) Il rischio educativo raccoglie delle pagine che sono nate all’interno di un movimento ecclesiale. L’autore, don Luigi Giussani, tuttavia, sembra avere la pretesa di enucleare una proposta di metodo che vale per tutti, addirittura anche per chi non avesse una visione cristiana della vita. Che cosa ha suscitato in lei, Giuliano Ferrara, uomo laico, la lettura di questo libro? Lo trova interessante anche per l’uomo che non condivida la visione cristiana della vita?
Giuliano Ferrara. Sì, certamente, don Ciccio. Io ho conosciuto don Giussani, il significato della sua opera, il suo stesso nome, la sua immagine, prima attraverso un fantasma che è quello dell’informazione: don Luigi Giussani, sacerdote in Milano, fondatore di un movimento cattolico integralista chiamato Comunione e Liberazione. Questo fa parte della preistoria e questo si leggeva sui giornali molti anni fa. Poi, dieci anni fa, ho fondato un giornale e per puro caso alla fondazione de Il Foglio – i casi della vita: c’è chi è pronto, chi è disponibile, chi c’è, e chi invece non c’è – nel nucleo redazionale originario mi trovo due ragazzi (veramente due ragazzi, anche da un punto di vista anagrafico: anch’io dieci anni fa ero molto più giovane, ma loro erano proprio tra i venti e i trent’anni) che venivano da Comunione e Liberazione. Mi sono chiesto: «Mah, chissà come andrà a finire?». Io non ho pregiudizi, sono, come avete visto nel corso di quest’incontro e come in parte sapete, un liberale; non proprio un liberale “perfetto”, tutt’altro, però lo sono da un punto di vista metodologico, quindi ho detto: benissimo, ci sono loro. Mi sembravano persone interessanti, intelligenti, stimolanti, reattive, e abbiamo messo su questo piccolissimo nucleo. Ho imparato a conoscerli, e mi hanno educato: mi hanno educato nel senso che mi hanno fatto conoscere un pezzo di quella totalità del reale che, attraverso la pedagogia dell’informazione, mi sfuggiva, e piano piano, con molto interesse, ho cercato di decifrare – sono ancora “neofita”, nel senso che non conosco tutta la storia del movimento – ho cercato di decifrare un po’ la cultura, l’anima di ciò che possiamo chiamare il movimento che si identifica nel carisma di don Luigi Giussani.
Poi il tempo è passato, sono nati i problemi, nel senso che la realtà ha posto nuove questioni: è andata avanti la genetica, è andato avanti il mio rapporto con la realtà, è andata avanti pure la malattia, e ci fu la predicazione forte di Giovanni Paolo II; vedete, io sono romano di nascita, figlio di romani e nipote di romani, quindi per me il Papa è un elemento della “statuaria” della vita: anche non avendo mai avuto, per educazione, un rapporto educativo diretto interno alla religione cattolica e alla Chiesa, però, insomma, il Papa è lì. La sua predicazione andava avanti, e si cominciava a “decifrare”: noi pubblicammo, nel 2000, una famosa istruzione della Congregazione per la dottrina della fede, che alla lettura mi sembrò molto significativa, molto interessante, molto problematica, molto drammatica, molto bella, la Dominus Iesus, che è l’istruzione sul concetto della verità secondo i cristiani. Si trattava di un punto di vista insieme ecumenico e “parziale”: la mia fede, la mia identità, il mio Gesù, la mia sequela di Cristo, il modo in cui io seguo Gesù Cristo. Quindi Giovanni Paolo II, e Ratzinger. Si assisteva, come dire, non ad una degenerazione, che è un termine forse troppo forte, o spegnimento, che anche questo potrebbe sembrare troppo polemico, ma ad un esaurimento, ad un infiacchimento della capacità di dare conto della realtà del mondo da parte di coloro che sono oggi in cattedra nel mondo occidentale, nel mondo moderno, nel mondo sviluppato e anche in quella larga parte del mondo in via di sviluppo, dove c’è la crescita al 7%: parlo della Cina, parlo dell’India. Cominciava a profilarsi una stanchezza e fiacchezza del cosiddetto pensiero unico dominante, quello che omologa, che ti richiama ai suoi valori in modo stringente e qualche volta anche con una punta di intolleranza intimidatoria: esiste solo l’individuo, esiste solo la sfera dei diritti degli individui, e questi diritti procedono dalla potenza volitiva dell’individuo; voglio, dunque posso, e se posso tecnicamente posso anche moralmente. Questi desideri diventano quindi diritti, e c’è una specie di ipertrofia dell’io: l’io si gonfia, quello stesso io che pure è così importante, anche nella pedagogia di don Giussani. La sua ricerca libera è il fine dell’educazione, secondo don Giussani, al punto di metterlo in condizione di cercare liberamente e addirittura, come diceva don Ciccio, di trasformare in problema perfino la dottrina e forse anche la fede.
Allora, andando avanti, si accresceva e si arricchiva il mio, in fondo, piccolo mondo di giornalista, costruttore di una piccola impresa giornalistica, di persona che pratica la parola, la parola moderna, la parola laica, implicata nei grandi fatti politici, attraverso uno strumento come la televisione: c’è stato l’11 settembre del 2001, c’è stato questo inizio drammatico di scontro, su uno sfondo di diversità e di conflitto tra civiltà con uno sfondo religioso, con una religione che, appunto, è diventata un problema. La religione, le religioni, la definizione dello spazio della laicità e dello spazio di Dio nella vita pubblica. Pericoli, rischi, drammi. In questo contesto mi è successo di conoscere personaggi abbastanza straordinari che vengono dal vostro mondo (il medico del lavoro Cesana, che è un leader attivo, laico, del movimento) ed anche alcuni ecclesiastici. Poi ci sono stati i funerali di Giussani, con quella bellissima omelia funebre pronunciata nel Duomo di Milano dal cardinale Ratzinger. E poi c’è stata la campagna del referendum sulla fecondazione assistita. Io, e con largo anticipo sulla convocazione del referendum, quando ancora si stava discutendo sulla legge in Parlamento, ero arrivato a decidere che dovevo dedicare il mio giornale a questo genere di cose. Ero arrivato, insomma, alla conclusione che se uno fa un giornale è inutile che si occupi di quello che fa l’onorevole Follini (che è importante, naturalmente, ma fino a un certo punto: come dicono gli anglosassoni, up to a point). E dico Follini senza spirito polemico, avrei potuto citare qualunque altro politico, senza nessun disprezzo qualunquista per la politica. Ma c’è un mondo i cui orizzonti sono così drammaticamente illuminati dai fuochi della guerra, c’è un mondo nel quale i laboratori – in cui la tecnoscienza può produrre la vita e modificare ogni forma e assetto della vita – si devono confrontare con problemi di etica, di etica pubblica, di responsabilità dell’uomo verso se stesso. Problemi immensi, che chiaramente non riescono a padroneggiare perché un filosofo deve comprendere che cos’è la scienza e un teologo deve comprendere che cos’è la materia di cui si occupa un filosofo, ma uno scienziato non può risalire la corrente come un salmone e capire la filosofia e la teologia. Insomma, c’è una gerarchia anche dei saperi: uno scienziato può dirci cose meravigliose, straordinarie, perfino un tecnico può fare cose meravigliose e straordinarie, come vediamo tutti i giorni nella vita quotidiana, ma c’è un potere in più: quello del sapere cosa devo fare. Non cosa sto facendo (che è in fondo più semplice) o come devo farlo, ma che cosa devo fare, perché devo farlo. E questo sapere in più è invece scarsamente sviluppato.
E quindi venne la questione dell’embrione. Delicata, perché c’era il problema di un bilanciamento tra diritti, il diritto di chi aspira ad avere un figlio, il diritto delle donne, la questione della loro salute, tutte le questioni sulle quali non torno perché sono state implicate dalla battaglia sui modi in cui bisogna legiferare in tema di fecondazione artificiale o fecondazione medicalmente assistita. E poi c’era questa cosa centrale, importante: come dobbiamo giudicare – concettualmente, filosoficamente, dal punto di vista del semplice riconoscimento del reale nella sua totalità: ecco perché non posso rimanere indifferente a un libro come quello di Giussani, ad una pedagogia e a un’idea (pedagogia è una parola insufficiente) del cristianesimo e del suo senso, del suo significato, come la sua! – il fatto che un essere sia concepito, embrionalmente concepito e poi, per una strana circostanza della cultura, questo stesso essere non venga tutelato, non venga difeso? Ciò che è qualcuno, un qualcuno voluto, un qualcuno che è una promessa già realizzata, già cromosomicamente definita – questo te lo dice anche la scienza, la tecnica – questo qualcuno può essere ridotto a cosa ed espulso senza troppe difficoltà in nome del desiderio, della programmazione, della pianificazione familiare: il figlio come prodotto che si può avere o rigettare! Quindi, nella civiltà che ha portato a prendere atto dell’esistenza dell’aborto clandestino e a sanare questa ferita (il che secondo me, laico, è sostanzialmente giusto) ma che poi ha abbandonato il problema a se stesso e ha rinunciato a combattere l’aborto (il che secondo me, laico, è invece di una gravità enorme e segna tutta la nostra epoca, e su questo sono proprio d’accordo con quello che ha scritto e detto nel suo ultimo libro, Memoria e identità, Giovanni Paolo II: è veramente una delle grandi ferite, delle grandi cicatrici della nostra epoca il rapporto con la vita), ecco, in tutto questo contesto io ho conosciuto il vero volto di Giussani, fino all’ultima assemblea di Rimini. Ma ne abbiamo fatte tante così, in tante città italiane, con Luigi Amicone, con tanti relatori diversi, col Comitato Scienza&Vita, con padri domenicani vestiti di bianco che facevano delle grandi lezioni scientifiche (all’ombra del Duomo di Modena, per esempio, nella piazza, c’era un domenicano che spiegava scientificamente con le diapositive che cos’è un embrione e perché deve essere tutelato nel suo diritto: un vero e proprio rovesciamento dello schema della legge barbara e crudele medievale, con un seguace di Domenico Guzman, san Domenico, che spiegava la scienza perseguendo un fine intimamente e profondamente cristiano rispetto al valore della vita!). Lì ho conosciuto la Fraternità e poi i suoi amici, la gente che accorreva, che era interessata a discutere, e quindi ho conosciuto, lo ripeto, il volto vero di Giussani, che è un volto fatto di giovani, che è un volto fatto di persone critiche, attente, che ascoltano, che parlano volentieri, che hanno qualcosa da dire, che hanno un rapporto con la realtà, che hanno idee spesso diverse, e mi è sembrato un movimento, senza che io attribuisca a questo un valore ideologicamente positivo, un movimento di persone molto moderne, in cui tu vedi una presenza radicata di giovani. Devo dire infatti che i giovani presenti alle assemblee in cui c’è lo. zampino di Comunione e Liberazione, paragonati con quelli di qualunque altra “assemblea” (la presentazione di un libro, anche di un libro molto di moda, o la presentazione di un disco, forse con l’eccezione di qualche concerto), sono tantissimi.
Allora questo libro, per rispondere in modo diretto alla domanda di don Ciccio, mi ha spiegato la cosa che ho visto, cioè mi ha messo in quella cosa circolare che è l’esperienza del soggetto ma parte dal riconoscimento dell’oggetto.
Vedete, io ho avuto un nonno liberale e un padre comunista, e fino a trent’anni sono stato molto scettico sulla gioventù, quindi ero anche scettico su me stesso: questo libro mi ha spiegato perché Benedetto Croce – il grande filosofo liberale che ha molti meriti, tra cui l’avere scritto un bellissimo saggio che si chiama Perché non possiamo non dirci cristiani, testo ancora controverso negli ambienti liberali e laici perché ha dato loro come uno scossone, e il cui titolo dice la sostanza del problema, anche se naturalmente si tratta del libro di un laico e forse anche di un ateo, il quale, però, sul terreno della cultura, che è così importante per il dialogo, dice che non possiamo non dirci cristiani, che è impossibile per noi europei, europei occidentali, noi figli di questa civilizzazione, non dirci cristiani – diceva che i giovani. No, questa ve la dico dopo. Prima vi dico cosa dice dei giovani don Giussani. Leggo da pag. 61: «In un recente dibattito mi è stata rivolta la domanda: “Come si fa a continuare ad essere giovani?”. La risposta ha attinenza con quello che ho chiamato “una vita che, passando, avanza in giovinezza – guadagna in giovinezza – in ‘educabilità’ – si diventa sempre più educabili – in ‘stupore’ e commozione di fronte alle cose”. (.) La giovinezza è caratterizzata dal sentimento di uno scopo, anche non precisato ma almeno sentito – perché Giussani, oltre a essere pensatore cristiano di grande originalità, ha una grande vena poetica, lirica, ermetica, cioè riesce nel parlar difficile ad essere estremamente chiaro – come futuro fortunato di ciò che si sta vivendo. È questo a impedire la rigidezza che elimina la duttilità, la flessibilità, una certa freschezza nell’uso delle proprie forme». Si ha davanti un mistero, un futuro, qualcosa di imprecisato, si è meno rigidi e più flessibili. «Più precisamente: il residuo senso di mistero, che definisce senza definirlo l’orizzonte e la prospettiva del vivere, che genera una disponibilità, per così dire delle proprie membra – non è vero che i cristiani non sentono il problema del corpo: lo sentono e non è vero che lo spiritualizzano cancellandolo o negandolo: basta leggere! – ad adattarsi a spazi nuovi, e lo stupore sempre inerente al senso del mistero fanno scaturire una inesausta sorgente di affettività in grado di muovere tutte le energie secondo un’emozione ben nota all’adolescenza e alla prima giovinezza». E finisce dicendo che poi, con la vita che passa, una “procedura” di ascesi, di memoria di ciò che si è stati e di questo ultimo senso del mistero, crea quella prospettiva adeguata in cui va collocato uno scopo degno della vita. Sono una pagina e qualche riga di antropologia dell’esser giovani. E invece il maestro di mio nonno e di mio padre, diceva: il problema dei giovani? Uno solo: devono invecchiare.
E allora ho capito bene perché le vostre assemblee sono piene di giovani: perché i giovani (come l’educazione, che li riguarda) sono un concetto complesso, ricco, importante, relativo alla realtà e al rapporto diretto con la realtà che ha un credente, un cristiano, anche culturalmente, non soltanto dal punto di vista della potenza emotiva e della forza che sprigiona dal fatto di fede. E quindi, ripeto, siccome sono partito da qui, quel fantasma dell’informazione che quindici, venti anni fa per me era don Luigi Giussani, sacerdote di Milano, fondatore di un movimento cattolico integralista, è diventato quello che è diventato nel corso dell’esperienza, del tempo e della verifica inter-soggettiva con le persone, attraverso le cose, i concetti e i fatti: un pensatore cristiano estremamente originale, che ha incrociato le vicende post-conciliari della Chiesa cattolica (cioè quindi non dell’ultima organizzazione dietro l’angolo, non dell’ultimo circoletto, ma di un deposito di fede, di cultura, di tradizione, di eredità apostolica, di scrittura), ha incrociato la storia del papato di Paolo VI, poi di Giovanni Paolo II e ora di Benedetto XVI, l’ha incrociata cogliendone l’essenza e lanciandola in pasto ai giovani. Quelli suoi oggi hanno – lo dicevo prima a don Ciccio – dai sessanta agli ottant’anni, ma ci sono quelli di dopo, che sono ancora qui, e quindi Giussani è un pensatore moderno, non c’entra niente con la caricatura integralista che ne danno giornalisti e osservatori che evidentemente non hanno avuto la fortuna di conoscerlo.
FV. Quindi, a un laico, interessa questa affascinante introduzione alla totalità della realtà. I fattori educativi qui indicati, i fattori necessari per questa introduzione alla totalità della realtà sono indicati dai termini ragione come capacità di verità, tradizione, verifica, presenza autorevole: che riscontro hanno avuto nella sua storia personale, nella formazione della sua personalità?
GF. È molto complicato rispondere, perché spesso, prendendo le posizioni che prendo (che come sa chi ha la bontà di ascoltarmi o di leggermi non sono posizioni di ortodossia dottrinale), si sente dire «Ferrara si è convertito», oppure «Ferrara vuole usare le idee della religione come instrumentum regni». Io sarei il famoso «consigliere del principe», e si riferiscono a Berlusconi, Bush ecc. Parlano di «trappola illiberale» e «maurrasismo» (da Charles Maurras, il famoso nazional-cattolico francese) e non sanno nulla di tutto questo; e poi dicono «neointegralista», «traditore del pensiero». Insomma, accade tutto questo ogni volta che io dico delle cose che a me sembrano basate su un normale e serio sforzo di dialogo come, ad esempio, se difendo il diritto di Buttiglione di diventare commissario europeo mantenendo il suo credo personale di cattolico, naturalmente distinguendo tra il suo credo personale di cattolico e la funzione pubblica che doveva svolgere, cosa che lui aveva distinto benissimo. Oppure se penso che ci siano film disperati, nichilisti: pensate alla campagna che abbiamo fatto sul film di Pedro Almodóvar “La mala educación”, che è un film anche bello, con una sua vena poetica, ma distruttiva.
Ed invece bisogna ricordare il bello, il buono e il giusto, dice don Giussani, e in questo lui si mette alla sequela, con tutto il cristianesimo (salvo naturalmente l’unicità e l’originalità assoluta costituita dall’Incarnazione, dal Verbo che si fa carne), del più grande pensiero antico che aveva individuato già questi grandi concetti. Che non sono prescrizioni alle quali obbedire. C’è addirittura una frase in cui don Giussani dice: «Non parliamo di comandamenti». Mette per un momento da parte la Legge, i comandamenti, ciò che devi fare e ciò che non devi fare, e preferisce una ricostruzione razionale attraverso il metodo comunionale; certo, dentro la Chiesa e dentro la tradizione, però la ricostruzione razionale è libera perché passa attraverso il riconoscimento della problematicità di tutto, compresa la fede e ciò che significano i comandamenti. Le regole, insomma, le devi conoscere, problematizzare e accettare, partendo da quello che don Giussani chiama, e lo ricordava prima don Ciccio, «la struttura originaria del cuore».
Ebbene, tutte le volte che io dico delle cose che, in qualche modo, affiancano questo modo di ragionare, applicandole a qualunque problema della realtà come l’aborto, le tecniche di biogenetica, la questione della vita, i costumi, ecc., mi trovo davanti qualcuno che mi dice: «Ah, no, grazie! Tu vieni da una formazione interamente laica, addirittura atea, ma io sono stato otto anni dai salesiani!». Spesso, cioè, trovo persone, miei coetanei, che hanno avuto una formazione cattolica negli anni in cui don Giussani ha cercato, dalla metà degli anni Cinquanta, e poi negli anni Sessanta e Settanta, di fermare quello che è stato poi il processo di liberazione da una fede che era diventata immotivata, era diventata dottrinale. E quindi mi dicono: «Certo, tu dici: perché non si deve dialogare con Ruini, perché non si devono accettare anche gli elementi forti, carismatici del pensiero di Ratzinger? Tu dici, caro Ferrara: perché si devono criticare le ortodossie opposte, le ortodossie laiciste, quelle del liberalismo che impongono a tutti di essere omologati dagli stessi valori dall’individualismo radicale? Tu fai così perché non hai avuto una formazione religiosa, ma noi che l’abbiamo avuta e che ce ne siamo separati, perché per noi a un certo punto questa formazione è risultata immotivata e la pratica religiosa priva di significato, non ti possiamo seguire, perché appunto negheremmo la nostra liberazione». Quindi, è complicato dire che cosa significhino queste parole nella mia formazione, perché la mia formazione è profondamente diversa.
Posso soltanto dire che la ragione, se solitaria, se è proiezione dell’io, se è solipsistica, se è un dialogo autonomo del sé con il sé, se è quella famosa coscienza – coscienza è una parola retorica, non bisogna mai abusarne – che non dialettizza con gli altri (come quando si dice che devi decidere nella libertà della tua coscienza: certo, ma la coscienza è misteriosa, è straordinaria, è bellissima la libertà di coscienza, è qualcosa che fa parte del mistero del mondo e dell’umanità, ma la coscienza io non posso trattarla, distruggerla; la coscienza esiste quando è esternata, quando diventa un elemento del dialogo razionale con gli altri), allora la ragione non è se stessa. Per me la ragione non è questo. La ragione, prima di tutto – e la citazione che faceva prima don Ciccio di un mio vecchio articolo di commento a Caffara voleva dire questo – non è soggettivismo, né nel campo dell’etica, né nel campo del sapere e della conoscenza. La ragione è il momento in cui – san Tommaso ce lo ha spiegato – c’è un adeguamento dell’intelletto e della cosa, quindi nel momento in cui c’è un incontro con la realtà ed è un incontro rafforzato e reso ineluttabile dal fatto che la tua coscienza, il tuo ragionare, la tua ambizione di sapere entrano in contatto con quelli degli altri.
E la tradizione? Per la tradizione ho avuto sempre un grandissimo rispetto anche nella mia primissima formazione. Per voi, i cristiani, per il popolo dei credenti, dei cattolici in particolare, la tradizione è questa cosa splendida, straordinaria, che voi riassumete con l’avvenimento, un incontro diretto, l’adesione a Cristo. Uno dei miei grandi stupori è stato quando ho scoperto – voi direte: sei un bell’asino! – che in un certo senso prima viene la Chiesa e poi viene il Nuovo Testamento: l’ultima cena, gli apostoli, il pane dell’eucarestia, vengono prima della buona novella che li racconta. Per questo sono l’avvenimento che, attraverso la tradizione, si perpetua come eredità materiale, eredità effettuata, reale. Per questo si può dire che i vescovi sono i successori degli apostoli, per questo si può dire che il Pontefice di Roma ha una funzione vicaria rispetto alla figura di Cristo e per questo la Chiesa esiste con il carico di questa grandiosa eredità. Quindi, per voi, tradizione è molto di più di quello che è per me, laico, che questo dato lo riconosco in termini culturali ma non in termini di fede. In termini culturali, però, lo riconosco e ritengo assurdo e superstizioso il credo di tanti laici che credono di emancipare la loro mente, di liberare la loro ragione considerando tutto questo un dato marginale della storia, e ritengono che la tradizione debba essere coltivata esclusivamente nel privato. Mi sembra un impoverimento della vita pubblica, un impoverimento della capacità di generare idee, di stimolare confronto e riottenere poi le soluzioni giuste nei più diversi campi, il che è terribile.
Anche sul concetto di autorità, tra un nonno liberale e un padre comunista, gli affetti, le memorie, le eredità soprattutto di mio padre (perché mio nonno morì giovane ma attraverso mio padre mi lasciò molto pure lui), insomma il principio di autorità, dal lato della tradizione liberale tendo a limitarlo troppo, dall’altro versante della mia esperienza personale, quella dei miei vent’anni di comunista, tendo a idolatrarlo, a farne un idolo. Mi difendo dal concetto di autorità, mi sono difeso. Sono uscito da ventiquattro anni da queste due dimensioni, ho avuto la fortuna di essere ben educato da un padre che non mi ha mai negato di porre come problema anche delle cose in cui lui credeva e con le quali mi aveva educato – da questo punto di vista era un laico come don Giussani, un pedagogo – e quindi è complicato un riferimento alla formazione personale sul principio di autorità.
Devo aggiungere una cosa: don Ciccio ha detto una piccola bugia. Per omissione, non penso sia un peccato così grave. Al termine del famoso pranzo, quando ci siamo incontrati, ha cercato di convertirmi prima della frutta! Questo mi ha fatto molto pensare, e il risultato di questo pensiero lo metto in questa risposta. Lui mi ha detto due cose. La prima: quando gli ho detto «io non ci arrivo alla fede», lui ha replicato: «Ferrara, consideri la Chiesa, la storia della Chiesa, il fenomeno. Che significa, per via ecclesiologica, la testimonianza? E come ci si può rendere ragione di questa testimonianza bimillenaria, dei suoi significati?». Poi alla fine lui ha detto che il vero problema è che la fede è la fede, e ci si inginocchia. Ecco, io credo di avere un forte blocco di orgoglio, che fa parte anche quello della mia formazione, che costituisce probabilmente il meno peggio del mio carattere, della mia personalità. Però c’è, ed è il problema di chi ha avuto un’educazione laica. È un blocco di orgoglio che mi rende incapace di questo atto di umiltà, di gioia, di felicità e di gloria, di partecipazione ad una gloria del mondo che io, culturalmente, riconosco essere tale. Per la via ecclesiologica magari ci riesco, ma non riesco psicologicamente a concepirla personalmente dentro la fibra del mio animo e mi sembrerebbe scorretto e disonesto saltare questo passaggio. E sono atti che implicano l’insieme della tua vita, della tua esperienza, di ciò che è la vita.
Ho una moglie che è cattolica: lei lo è, punto. E sono vent’anni che vivo con lei, che la amo, che condividiamo tutto della vita, e vedo quanta freschezza, quanta naturalezza anche nell’eterodossia, perché è nata in California ed ha avuto interessi spirituali e culturali per altre forme di religiosità (una volta è stata in India per un mese) ed è cattolica naturalmente e fervorosamente, e ricorda un suo incontro con Pio XII, in cui lei scoppiò in lacrime davanti a questo Papa, ed il suo inginocchiarsi, ed io la guardo e la considero con ammirazione, per lei e per me, perché siamo parte di una comunità nucleare forte. Però io non riesco. Per il futuro, nessuno può dire: magari tutti voi diventerete dei voltairiani ed io rimarrò l’unico a inginocchiarmi.
FV. Grazie di questa testimonianza molto personale che avevo omesso per discrezione. Adesso che vi è stato fatto cenno, posso dire qual è stata la domanda che ho posto a Ferrara prima della frutta: «Di fronte a questo fenomeno che la appassiona tanto, che la interessa tanto, lei deve rispondere a queste domande – gli ho detto – perché è la ragione che deve dare risposta: questo fenomeno si spiega come il supremo impeto dello spirito dell’uomo? O non bisogna piuttosto riconoscere che c’è perché c’è il dito di Dio? Deve rispondere a questa domanda!».
GF. Ed io ho chiesto un rinvio!
FV. Allora andiamo alla terza domanda. (.) Tutto Il rischio educativo sostiene che non è possibile praticare un’educazione a partire da un dubbio o da una molteplicità di ipotesi sulla realtà. Si parte da una, che è quella che viene dalla tradizione in cui nasce il giovane. Un po’ come è stato per la sua storia. (.) Ora, questa affermazione viene portata fino alla conseguenza della difesa della scuola ideologicamente qualificata, cioè una scuola dove si dia un’ipotesi, un criterio esplicativo unitario di tutta la realtà. Come può conciliarsi questa proposta con l’esigenza di integrazione sociale, tolleranza, dialogo che avvertiamo in modo preminente in una società caratterizzata dal pluralismo culturale?
GF. Io mi sono segnato, don Ciccio, il nota bene finale dell’introduzione de Il rischio educativo, ed è un passo notevole, perché una delle caricature che riguardano Comunione e Liberazione, le sue grandi fonti, la sua scaturigine che è il pensiero e la pratica di don Giussani nel mondo dell’educazione e fuori (ma il mondo dell’educazione in fondo per lui comprendeva tutto), una delle caricature è che si tratti di un pensiero pre-conciliare o anti-conciliare. Ebbene, ci sono qui due pagine bellissime sull’ecumenismo: l’oikouméne come cultura per il cristianesimo primitivo e come uno dei luoghi nei quali si realizza l’identità del cristianesimo, la scelta per Cristo. In questo libro si dice che l’integrazione, o la tolleranza, non arriva fino all’assimilazione, lascia aperti sempre dei confini che però devono essere gestiti con mutuo accordo e con reciproco rispetto. Sempre senza che la tolleranza abbia niente di borioso. Però, appunto l’integrazione, la tolleranza, persino la mescolanza e la contaminazione di culture, sono favorite, non ostacolate, dalla sensibilità di ciascuno e di ciascuna comunità verso la verità.
A me questo è sempre sembrato un dato logico, eminentemente razionale, e io penso che l’alta conflittualità e il trasferirsi di questa conflittualità su uno sfondo pericoloso di fanatismo religioso – come ha recentemente notato Benedetto XVI nella lettera per la Giornata della pace – questo greve senso di un incremento dei conflitti e della potenzialità devastante dei conflitti, deriva non dal risorgere dell’identità ma dalla crisi dell’identità, cioè dalla crisi del concetto di verità e del rapporto con la realtà. Insomma la verità è la base del dialogo. La danza intorno alla verità è la base del dialogo.
Ci possono essere culture più chiuse ed altre più “missionarie”, impulsi, storie, vocazioni e testimonianze interne alle diverse culture e alle diverse religioni più disponibili e altre meno disponibili al dialogo, alcune con una tendenza universalizzante o altre con una tendenza particolare. (.) Quindi ci sono differenze, anche abissali per certi versi, ma non si possono colmare negandole, non si può aspirare ad una omologazione indifferente. Quando era prefetto della Congregazione della dottrina per la fede, in numerosi dibattiti con Jürgen Habermas e altri intellettuali europei, il cardinale Ratzinger diceva: guardate che l’aggressione all’occidente, è, a parole, aggressione ai crociati, ai cristiani, e c’è anche questo elemento di rivalsa storica di una civiltà che è nel suo quindicesimo secolo contro un’altra civiltà che è nel suo ventunesimo secolo ed ha dominato tecnicamente il mondo. Il punto fondamentale, però, è che i fanatici, i fondamentalisti, e la loro scommessa aggressiva, violenta, brutale, nascono dal profondo disprezzo verso il nostro indifferentismo rispetto al problema della verità. Sono sgomenti di fronte al nostro indifferentismo rispetto al problema della verità. E dunque riflettiamo: se noi riusciamo – questa è profonda sapienza di un organismo che ha una storia bimillenaria come la Chiesa cattolica romana – a riproporre, con un po’ di forza per il nostro pensiero, il nostro modo di considerare la vita, non solo con un formulario precettistico di valori, ma proprio puntando a riscoprire il significato delle cose, la loro verità nel rapporto con la realtà – ed è ovvio che per un cristiano il primo elemento, diciamo, “veritativo” è la via, la verità, la vita, cioè una persona, un’incarnazione, è la più assoluta e misteriosa trascendenza, il totalmente altro, Dio che si incarna nella storia – ecco, se noi riusciamo a far questo, allora lì si può costruire, attraverso il dono di ciascuno del proprio segno di verità, del suo significato più profondo, si può scoprire qualcosa, si può
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