La presenza del “piccolo gregge” che insegna la convivenza in Terra Santa

Di Giancarlo Giojelli
11 Aprile 2025
L'esperienza del Rossing Center e altri piccoli ma significativi esempi di come i cristiani provino a vivere in pace con tutti in Terra Santa
Israele, Gerusalemme
Israele, Gerusalemme (Foto Ansa)

«Sono israeliano ma non sono ebreo, sono arabo ma non sono musulmano: sono cattolico, greco cattolico, melchita e la mia famiglia affonda le sue radici da mille anni in una terra fenicia, siriana, israeliana, palestinese: tutti i popoli della Bibbia sono riassunti nel mio dna eppure appartengo alla minoranza delle minoranze delle minoranze. I cristiani sono meno del 2 per cento della popolazione nella terra dove è nato Gesù. I cattolici il 5 per cento del 2 per cento. Io ho un passaporto dello Stato ebraico e per i palestinesi sono uno straniero, per non dire un nemico. Ho una laurea presa a Roma in Medicina grazie ad una borsa di studio, insegno nelle scuole di Haifa ad allievi ebrei, cristiani, musulmani, drusi, figli di beduini e circassi. Soprattutto i musulmani fondamentalisti, che stanno crescendo anche qui, nel Nord di Israele, mi guardano con sospetto, se non con odio. Per loro un cristiano è un avamposto dell’Occidente. E mi guardano con sospetto molti ebrei, non solo ultra ortodossi. Per loro sono la memoria dell’antigiudaismo che per secoli e secoli ha perseguitato le comunità ebraiche della diaspora. Un “complice” storico dei crociati».

Una presenza che ti definisce

George Khoury racconta la sua storia nella casa di famiglia in un villaggio della Galilea del Nord. Poco lontano, sulle colline più a nord, c’è Fassuta: un paese di tremila abitanti che vivono sotto il tiro dei missili di Hezbollah. L’esercito israeliano li ha più volte invitati a evacuare la zona, ma loro sono rimasti. Ogni giorno suonano le campane della chiesa di Mar Elias, di Sant’Elia, e il suono che si spande nella valle che scende dai monti che segnano la linea di demarcazione con il Libano ricorda che i cristiani sono lì. Tra le bombe e la contraerea. Una presenza. Viva. Lo avevo conosciuto trent’anni fa, Gery Khoury, il sindaco di Fassuta, e ripeteva sempre questa parola, l’unica capace di riassumere la vera identità. Gery ne aveva capito il senso vero proprio studiando a Roma, come George (Khoury è il cognome più diffuso tra il Libano e la Galilea).

Gery negli anni Settanta aveva conosciuto quel gruppo di “strani cristiani” che all’università avevano fatto della presenza la loro unica e riassuntiva definizione, prima ancora di definirsi come Cl o Cattolici popolari. E spero che qualcuno tra i lettori meno giovani di Tempi ricordi i suoi interventi nelle infuocate e ideologiche assemblee, in cui spiazzava tutti, o almeno quanti erano già pronti a identificarlo nelle loro fila, o in quelle avversarie. Lui parlava dei bisogni veri. «Vedi – mi aveva detto un giorno in cui ero andato a trovarlo a Fassuta – a Roma ho scoperto che proprio la Presenza mi definiva: in una compagnia accoglieva tutto di me».

Non ho fatto in tempo a rivederlo quando sono tornato a vivere in Israele, un amico israeliano-cristiano-maronita che abita a Gerusalemme mi ha raccontato che è morto proprio a Roma, mentre guidava un gruppo di cristiani che dalla Terra Santa erano venuti in pellegrinaggio a San Pietro, nell’Anno Santo della Misericordia, poco prima dell’incontro con il Papa. Vicino alla tomba di Pietro, quell’altro uomo arrivato a Roma dalla Galilea. Un pescatore del lago di Genezaret, un altro uomo forte solo della Presenza.

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Una cristiana e un ebreo

«Qual è il futuro dei nostri figli e nipoti?», si domanda Sharif Eseid seduta accanto alla chiesa del villaggio. Sharif lavora come infermiera nella nursery dell’ospedale di Nazareth, guarda suo figlio Wande, che dopo le superiori vuole studiare Ingegneria: «Se andrà a studiare in Europa non tornerà più qui». L’emigrazione è il desiderio del 48 per cento dei cristiani che hanno meno di 30 anni. Nelle scuole cristiane trovano un’istruzione di alto livello, ma questo li spinge ad andarsene piuttosto che affrontare un presente di guerra e con poche prospettive economiche.

C’è chi lavora per sostenere la presenza cristiana. Chi ha scelto di vivere qui e con un obiettivo ambizioso, quasi impossibile. Costruire la convivenza. Federica Sasso, una donna di 46 anni, italiana di Imperia, studi alla Cattolica di Milano, master a New York come giornalista e poi a Gerusalemme. Lì il destino le ha fatto incontrare chi ora condivide il suo presente più vero: un ebreo nato qui, da una famiglia tradizionale. Sembrava un amore impossibile, ma la famiglia ebrea l’ha accolta e amata. Hanno una bellissima bambina che ride mentre parlo con la mamma: una piccola che è quasi un miracolo perché è difficile, quasi inconcepibile in questi momenti, immaginare un matrimonio tra una donna cristiana e un uomo ebreo. È la donna che trasmette la discendenza, dice la Torah, eppure è avvenuto. Anche questo è un segno che si è concretizzato in un’opera.

Rossing Center (Foto Facebook)

L’esperienza del Rossing Center

Federica lavora per il Rossing Center, una delle realtà più interessanti in Israele, un centro nato da chi vuole costruire ponti tra identità e culture. Secondo gli ultimi dati del dicembre 2024 diffusi dall’Ufficio centrale di statistica israeliano, al 31 dicembre 2024 la popolazione è stimata in 10.027 milioni di residenti. Di questi 7,707 milioni (76,9 per cento) sono ebrei, 2,104 milioni (21 per cento) sono arabi e 0,216 milioni (2,1 per cento) sono classificati come “altri”. I cristiani sono 180.300 (circa 1,8 per cento della popolazione, con una crescita dello 0,6 sul 2023), il 78,8 per cento di loro sono considerati arabi.

Il Rossing Center for Education and Dialogue è una organizzazione interrreligiosa con sede a Gerusalemme e 60 centri sparsi in tutto Israele che promuove l’integrazione nella società delle diverse identità culturali etniche e religiose attraverso incontri, ricerche, gruppi di lavoro e studio tra ebrei, musulmani e cristiani. Vive grazie a contributi e donazioni che arrivano da tutto il mondo, da organizzazioni non governative, soprattutto legate a chiese tedesche e americane, cattoliche e protestanti. Collabora con le principali università occidentali, americane, europee e arabe. Una fitta rete di scambi culturali che non ha frontiere ideologiche. Settemila ricercatori, di cui un’ampia parte volontari, guidano i programmi di lavoro a cui partecipano anche via internet oltre sessantamila ragazzi.

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Conoscenza e ignoranza

Il Rossing Center si basa su un’intuizione e una scommessa: l’intuizione che i cristiani non sono una presenza estranea allo Stato ebraico, ma una ricchezza, e la scommessa di fare delle differenze una ricchezza comune. Scrivono alcuni ragazzi dopo aver partecipato ai progetti di formazione: «Ora so di più. E questo riduce la paura e l’angoscia». Un esempio: «Prima quando sentivo il muezzin invitare alla preghiera mi sembrava di udire un incitamento alla guerra, ora capisco che invita a lodare Dio, e mi domando se anche i ragazzi musulmani che ho conosciuto abbiano provato gli stessi sentimenti». L’ignoranza genera odio. Molti giovani ebrei sapevano poco o nulla del cristianesimo, e viceversa, ora ci sono cristiani ed ebrei che hanno scoperto il significato reciproco della parola “Pasqua”, dopo aver vissuto fianco a fianco per anni. Ma la strada da percorrere è ancora lunga e impervia.

Federica ha lavorato a un ampio rapporto consegnato alle autorità di Israele. Documenta la crescita di un sentimento anticristiano tra la popolazione ebraica ultra ortodossa. Episodi di intolleranza dapprima sporadici che si sono fatti sempre più frequenti, soprattutto nei confronti dei religiosi nella città vecchia di Gerusalemme. I pellegrini – pochi, molto pochi, in questi mesi di guerra – vengono molestati più raramente (sono pur sempre un contributo economico per tutti), ma i cristiani locali si sentono sempre più minacciati e discriminati, «per questo è importante continuare a far crescere momenti di incontro e integrazione», dice. «A Gerusalemme le comunità vivono in spazi contigui ma assolutamente separati: società parallele che si ignorano. E sull’ignoranza prolificano i pregiudizi».

Il report conferma la crescente preoccupazione per il futuro. Se il 48 per cento dei giovani sogna di emigrare, il 36 per cento dice di “considerare” comunque la prospettiva di abbandonare le proprie terre; un desiderio che è meno diffuso a Gerusalemme Est (solo il 16 per cento), mentre riguarda quasi la metà delle persone ad Haifa (48 per cento). Fra i fattori che influenzano maggiormente la decisione vi sono la sicurezza (44 per cento) e la situazione socio-politica (33 per cento).

Vivere insieme

I legami familiari (52 per cento) e quello religioso con la terra (24 per cento) sono determinanti nell’impegno a rimanere. Gli intervistati indicano la protezione della terra e delle proprietà della chiesa (26 per cento), la fornitura di alloggi (24 per cento) e l’offerta di lavoro (22 per cento) fra le azioni più efficaci che le Chiese possono intraprendere per i cristiani palestinesi. Inoltre, al tema della migrazione si accompagna quello – non meno importante – della scarsa natalità fra i cristiani, che registrano il dato più basso fra tutte le comunità etnico-religiose della Terra Santa.

Hussam Elias, project director del Rossing Center, riferisce che «non si vedono cambiamenti nel tasso di fertilità delle donne cristiane» e questo aspetto «si combina con altri fattori» fra i quali «l’estremismo politico e religioso», determinando una spinta all’emarginazione. I dati statistici sono freddi ma significativi: di fronte ai numeri che documentano le paure che spingono ad andarsene splende il coraggio umile e tenace di chi rimane. E la responsabilità di tutti: costruire, nel deserto umano della guerra, il giardino della Speranza. La parola chiave di questo anno Santo, della Pasqua che si avvicina. I cristiani sono e restano un “piccolo gregge”, eppure stanno insegnando a chi si odia e li odia a vivere insieme.

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