
La preghiera incisa nella carne

Articolo tratto dal settimanale Tempi in edicola (qui la pagina degli abbonamenti) – «Possa Dio aiutarci». Era questa la frase che è stata trovata incisa nella pelle di due dei cadaveri recuperati in mare nella recente strage nel Canale di Sicilia. Altri avevano scritto sul palmo della mano il nome del loro villaggio d’origine, dove mai torneranno e dove forse mai sapranno della loro sorte. La preghiera e il nome di casa: ecco cosa si pensa nel momento della tragedia.
Le cronache dei quotidiani hanno raccontato l’ultimo straziante viaggio che i ventiquattro cadaveri hanno compiuto verso Malta. Avvolte prima in sacchi neri e poi in borse bianche, giunte a La Valletta le salme sono state portate nella camera mortuaria dell’ospedale civile. Qui, il direttore sanitario, impietosito da quello strazio, ha fatto un appello perché anche a quei corpi «unidentified» fosse concesso l’estremo saluto. Il ministero della Cultura maltese ha fatto recapitare un grande mazzo di fiori. Diciassette dipendenti dell’ospedale hanno portato gladioli, tulipani, margherite. Così, un’asettica sala d’ospedale s’è colorata di fiori e dediche per gli «unidentified, gli sconosciuti al mondo».
In disparte s’è tenuta una donna, che abita a pochi passi dal nosocomio. Piangeva, non ha lasciato biglietti, ma solo un omaggio floreale, il più piccolo tra quelli deposti accanto ai cadaveri. Di lei, come dei ventiquattro morti, non sappiamo nulla: né il nome, né il volto, né cosa l’abbia spinta lì. Ma il suo omaggio anonimo e silenzioso ce la fa sentire sorella di quegli uomini col nome di Dio inciso nella carne.
Foto Ansa/Ap
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