
La povertà è standar nelle famiglie
Che bello aiutare i “meno fortunati di noi”. Che bello vestirli, sfamarli, trovar loro una casa. Fa anche molto “Natale”. Sono trent’anni che lo Stato, e soprattutto una certa retorica catto-comunista, usa l’assistenzialismo come linea guida per i propri interventi. Il risultato è che solo nella città di Milano, capitale dell’industria italiana, i poveri sono 250mila: 83mila appartengono a famiglie che vivono ai limiti della sopravvivenza con un reddito inferiore alle 700mila lire al mese. E sono “a rischio di povertà” circa 141mila persone che appartengono a famiglie con reddito complessivo intorno ai 2 milioni. E non sono clochard ma insegnanti, commessi e professionisti. Perché il vero problema della povertà non è sapere se ci sono i poveri (questo è scontato e tutti i dati ne indicano un incremento) ma sapere quanti sono e, soprattutto, dove sono. Banalità? Esattamente. Eppure nessuno cui aveva mai pensato.
Quanto è bello aiutare il poverello
Uno dei punti forti della “retorica sulla povertà italiana” è la “retorica sulla casa”, e, per quanto ci interessa, sul mondo degli affitti. L’onerosità dell’affitto è una delle cause principali del peggioramento della condizione economica che spinge sempre un maggior numero di famiglie verso l’indigenza. La legge numero 431 del 9 dicembre 1998, la cosiddetta “legge Zagatti”, la legge in materia di abitazioni dell’era Ulivo, non ha, di fatto, aiutato a migliorare la situazione. Perché, anziché fornire i principi generali d’intervento e i finanziamenti per aiutare i bisognosi, si dilungava in una serie di regolamenti operativi che bloccavano gli spazi di manovra delle Regioni (guarda caso a maggioranza Polo) per giungere ai comuni (guarda caso a forte presenza “rossa”). Basata su controlli rigidi delle risorse, la legge promuoveva un decentramento amministrativo da un punto di vista del diritto ma vi associava una centralizzazione di fatto. Nella logica del “quanto è bello aiutare il poverello”, stretti nella morsa burocratica, Regioni e Comuni non riuscivano ad intervenire efficacemente e soprattutto non avevano le attrezzature adeguate per “catalogare” i poveri. Per cui ogni anno si era punto e a capo, senza dati empirici che potessero aiutare nello svolgere, l’anno successivo, un’azione più utile. E così si tornava a ragionare su dati generali e ormai inattuali che avevano come punto di riferimento il lontano censimento del ’91 (del tutto carente in merito all’onerosità dei canoni e sulla condizione economica dei titolari dei contratti). Lo Stato distribuiva i soldi, le Regioni li giravano ai Comuni, effettivi promotori dell’intervento, senza mai sapere quali fossero le condizioni economiche delle famiglie che dovevano godere dei benefici. Va inoltre aggiunto che i criteri di distribuzione erano spesso confusi e discutibili; basti pensare che, come indicatore della condizione economica, la norma faceva riferimento al reddito assoluto, senza prendere in considerazione la composizione del nucleo familiare.
La sussidiarietà fa risparmiare
La Regione Lombardia ha capovolto questa logica. Sfruttando i margini di manovra consentiti dalla legge, ha promosso un “Fondo per il sostegno degli affitti” non distribuendo a pioggia ma chiedendo a chi ne avesse la necessità di autocertificare la propria situazione. La Regione ha dunque cestinato la logica statalista che tendeva a misurare la povertà e ad erogare gli aiuti secondo schemi precostituiti ed ha chiesto agli stessi indigenti di farsi avanti e di illustrare la propria situazione. Risultato: lo Stato (e le altre regioni d’Italia) non sanno chi sono e dove sono i loro poveri. La Lombardia conosce nome, cognome, indirizzo e codice fiscale dei 26mila lombardi che hanno presentato domanda d’aiuto. E inoltre: secondo i conti dello Stato alla Regione sarebbero dovuti servire circa 100 miliardi per quest’operazione di sostegno agli affitti dei poveri; alla Lombardia ne sono bastati 68. E ha tenuto conto di molte più variabili rispetto a quelle previste dallo Stato: la ricchezza effettiva del nucleo familiare, l’ammontare dell’affitto, le caratteristiche dell’alloggio e la tipologia del comune.
«Conoscere per deliberare»
Altro punto forte della “retorica della casa” è che i bisognosi siano le persone sole e i pensionati. Una logica individualista che diventa stortura anche del sistema fiscale italiano che è basato su calcolo del reddito del singolo e non sul nucleo familiare. Per cui lo Stato tratta allo stesso modo, a parità di reddito, il single e la famiglia monoreddito di cinque persone che abitano in un’identica casa di 50 metri quadrati. Questa ingiustizia ha, di fatto, penalizzato nel corso degli anni le famiglie che, secondo i dati regionali, sono il “fattore più a rischio” (cfr. Grafico che, si badi, riporta come indicatore non il reddito ma la ricchezza media netta del campione). I poveri sono dunque quelli che nel linguaggio tecnico sono definite le “famiglie standard” cioè: padre, madre (entrambi con reddito) e due figli. Che hanno anche rappresentato la fetta più cospicua del campione (40 per cento) di contro alle basse percentuali di piccoli nuclei di giovani o di anziani. I contributi erogati dalla Regione sono andati da un minimo di 100mila lire ad un massimo di 6 milioni e mezzo annui. E per quest’anno gli aiuti potranno contare sui dati reali archiviati nel 2000. Come diceva Luigi Einaudi occorre «Conoscere per deliberare».
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