La nostra aspettativa di vita trionfale e la «triste morte» che ci attende

Di Pier Giacomo Ghirardini
05 Ottobre 2015
Sul Corriere Michele Salvati, presagendo la «vittoria finale» della riforma del Senato, s’è messo a paragonare Renzi a De Gasperi. In questo clima di humilitas, penso al comune destino della stirpe degli uomini

ballettoArticolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Le jeune homme et la mort è un classico della danza moderna. Un crogiuolo di genio artistico: libretto del romanziere e drammaturgo Jean Cocteau, coreografia (probabilmente la migliore) dell’allora ventiduenne Roland Petit, sulla musica (scusate se è poco) della Passacaglia in do minore di Bach (Bwv 582), orchestrata da Ottorino Respighi (l’arte dell’orchestrazione fatta persona, che ha eternato Roma in un’estatica luce impressionistica, bimbi saltellanti al ma-quante-belle-figlie, traffico di birocci e antiche pietre lisciate e sinuose come fianchi di donna sotto i pini dell’Appia).

Già alla seconda o alla terza variazione della Passacaglia di Bach, che l’ascoltiate nella compostezza, comunque posseduta e incalzante, dell’originale per organo o nella definitiva epifania orchestrale di Respighi, si capisce quello che, prima o poi, ci tocca di capire. Guardo l’espressione, sempre un po’ grave, di Johann Sebastian, per ottenere smentita, ma der Kantor ci conferma: no, ragazzi, prima o poi dobbiamo morire… E la partitura che tiene immancabilmente in mano sembra la lista con il nostro nome sopra.

Passacaglia: letteralmente il passare la calle, il girovagare. Nel “mimodrame” di Cocteau, il giovane uomo, creativo, artista, balla la sua di passacaglia, struggendosi nell’attesa dell’amata, ma quando essa arriverà, bella e fatale, avvinghiandosi a lui in una danza macabra e sensuale, braccia e gambe come vorticanti lancette di orologio impazzito, rivelerà che il tempo dell’attesa ha consumato ormai tutto il tempo: lei è la morte. Se vi capita, andatevi a rivedere l’interpretazione di Zizi Jeanmaire e Rudolf Nureyev o quella di Mikhail Baryshnikov nel film White Nights.

Orbene, secondo la più recente tavola di mortalità italiana elaborata dall’Istat (riferita al 2013), la speranza di vita di un quarantenne italiano è pari a poco meno di 41 anni (40,914 anni per la precisione): in media, che si tratti di un ragioniere o del presidente del Consiglio, costui ha davanti altrettanta vita di quella che ha vissuto. Naturalmente la tavola non incorpora i lenti progressi della sopravvivenza. E poi, ça va sans dire, si tratta di una media. C’è chi nasce con la camicia e chi no.

Giorni fa, sul Corriere della Sera, Michele Salvati, presagendo (facile vaticinatore) la «vittoria finale» della riforma del Senato, ha iniziato a tributare all’attuale inquilino di Palazzo Chigi onori che non furono concessi né a Pompeo Magno né a Cesare, avanzando il paragone con Alcide De Gasperi – non se la prenda monsignor Galantino! In questo clima di humilitas, figurandomi incatenato al carro del vincitore come un prigioniero ligure apuano, penso al comune destino della stirpe degli uomini «che la triste morte attende», come scrive Tolkien, e che dovrebbe temperarne il giudizio, le parole e le azioni.

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