La morte si è fatta partito

Di Giulio Meotti
07 Settembre 2006
Così i democratici hanno tradito il liberalismo «Abbiamo certi diritti perché siamo uomini? O quei diritti li hanno solo certi uomini?». L'autore di "Party of Death" contro l'America dell'aborto

«I liberal hanno imparato un’unica lezione da Hitler: non discriminare. Non che la vita è sacra, ma che non dobbiamo mai dire che siamo diversi». Quanto scrive nel suo ultimo libro Ann Coulter, la bionda iconoclasta del conservatorismo americano, non è così lontano dalla verità. I democratici si sono sforzati di mantenere il contatto con la nazione eleggendo come leader della minoranza al Senato un mormone, antiabortista di ferro e amico di Bush come Harry Reid. Ma alla resa dei conti, al voto sull’embrione, solo un senatore democratico del Nebraska si è rivoltato contro il finanziamento pubblico della ricerca sulle staminali embrionali, approvato dal Congresso e bloccato con un veto del presidente George W. Bush.
Non ha dubbi Ramesh Ponnuru, intellettuale conservatore della National Review e protagonista della destra americana: «Lo scontro sull’aborto e sull’embrione è la dimostrazione che i liberal, il Partito democratico, sono diventati il partito dei “forti”, il partito della morte», spiega a Tempi Ponnuru, autore del controverso The Party of Death (Regnery Publishing). «”Partito della morte” è un termine che uso per le forze politiche e culturali che sviliscono il diritto alla vita. Sono presenti sia fra i repubblicani che fra i democratici, ma di più fra questi ultimi». Ce ne sono anche fra i repubblicani, visto che ben 19 senatori della maggioranza hanno votato con i democratici. «L’espressione l’ho presa dal filosofo liberal Ronald Dworkin, che apre un suo libro in difesa di aborto ed eutanasia dicendo che si tratta di “scelte per la morte”. Ma come possono essere giustificate queste scelte per la morte? Solo sostenendo che gli esseri umani che vengono eliminati non sono “persone” detentrici di diritti. Una volta il liberalismo americano era il partito che allargava il cerchio di coloro che ricevevano la protezione legale. Ma dalla fine degli anni Sessanta, i liberal si sono aggregati al carro merci dell’aborto».
Ponnuru è nato in una famiglia di padre luterano e madre indiana, e si è formato in un ambiente tipicamente liberal. «Sono diventato un oppositore dell’aborto su un terreno puramente razionale e laico, prima ancora di convertirmi al cattolicesimo. Il fatto che la Chiesa fosse in prima linea nel difendere la santità della vita per me è stato un fatto di grande attrazione. Se aveva ragione su questo, forse lo aveva anche su altre cose. E così ho aperto la mia mente. Non riesco a capire come un embrione o un feto possa essere qualcos’altro di un essere umano, o come il suo status morale possa dipendere da come lo sentono altre persone. Sostengono l’aborto perché pensano che le vite embrionali e fetali non abbiano profondità morale, non perché diano un valore all’autonomia del corpo femminile. Gli esseri umani nella fase embrionale di sviluppo non differiscono da un bambino di cinque o sei anni».
A partire dal 1973, l’anno della liberalizzazione dell’aborto in America, 70 paesi hanno seguito quella strada. La differenza è che negli Stati Uniti se ne continua a parlare, a dividersi e a fare politica e battaglia culturale intorno all’aborto. Gli americani che si oppongono del tutto restano una minoranza, ma di un altro peso rispetto, ad esempio, all’Inghilterra: il 46 contro il 17 per cento. Da dove nasce questa contraddizione fra legge e cultura? «I problemi bioetici sono decisivi nella scelta del presidente. Nessun altro paese in Europa ha però una politica estremista sull’aborto come gli Stati Uniti. L’aborto è legale in ogni circostanza e in ogni fase della gravidanza, per ogni ragione adducibile, dunque nessuna. Ma la popolazione è profondamente divisa e pochi americani, circa il dieci per cento, approvano questo estremismo». Tanto che la parola “aborto” non si trova nella sigla di nessuna organizzazione abortista, si chiami Planned Parenthood, Naral, Center for Reproductive Rights o National Organization for Women.

Lo chiamavano “protoplasma”
La coscienza americana non si è mai pacificata nella messa a morte del piccolo uomo invisibile nel 1973, l’anno della sentenza Roe vs. Wade sull’aborto: «Questa sentenza è contro le nostre profonde convinzioni ed è stata imposta antidemocraticamente. I sostenitori dell’aborto hanno paura che se venisse bandito il paese tornerebbe agli anni Cinquanta. Ma è chiaramente falso. La verità è che per noi l’aborto, come il terrorismo, è la violazione dei diritti dei più vulnerabili. I liberal hanno detto che le donne erano vittime degli aborti illegali e che morivano per questo. Falso. Quattrocento accademici hanno mentito su questo in una petizione alla Corte suprema. Ora stiamo aprendo le porte all’infanticidio dei disabili e dei nuovi nati malati. La Corte suprema ha calpestato democrazia e giustizia. Ma ora che Samuel Alito ha sostituito la swinging Sandra Day O’Connor, possiamo sperare di cambiare la situazione. Perché a scuola si può fare molto per ridurre l’aborto, ma è solo evitando di usare le tasse, varando politiche di notifica familiare, leggi di consenso informato e restringendo il periodo che l’aborto può essere sconfitto». Ma i liberal si oppongono a ognuna di queste misure. «Dicono di voler limitare l’aborto con la contraccezione, ma solo le restrizioni legali funzionano». L’economista Michael New della Heritage Foundation ha dimostrato che attraverso metodi come notifiche ai genitori, consenso informato e restrizioni temporali i tassi di aborto sono molto diminuiti. Donna Brasile ha confessato sul New York Times: «Ho dei problemi nello spiegare alla mia famiglia che non stiamo uccidendo degli esseri umani». Nel Michigan il governatore democratico Jennifer Granholm ha deciso che le cliniche abortiste devono mettere a disposizione delle donne le immagini del feto. L’aborto è diventato, di anno in anno, una ferita sempre più lancinante. «Perché i paesi occidentali hanno scelto la libertà, la tolleranza e l’eguaglianza pensando che fosse l’unica strada per ottenere pace sociale. Gli Stati Uniti invece hanno abbracciato questi ideali perché convinti che fossero verità morali e diritti di ogni essere umano. La nostra teoria fondativa è che il governo esiste per proteggere gli individui, incluso il diritto alla vita. Le leggi abortiste si basano sull’idea che gli esseri umani nell’utero non sono persone, teoria che ha aperto all’eutanasia, alla ricerca distruttiva sugli embrioni e persino all’infanticidio. L’idea di Peter Singer di “esseri umani non-persone” è la più letale per tutti noi. L’aborto, quindi, non è mai stato normalizzato nella cultura. Il popolo si rifiuta di vederla come un’altra procedura medica. Nei primi anni del dibattito era pratica comune per i sostenitori dell’aborto sminuire il feto umano come “palla di tessuti” o “protoplasma”. Ma quando hanno visto le immagini agli ultrasuoni del proprio figlio, hanno capito che queste descrizioni erano inadeguate. Un conto è eliminare la malattia, un altro è eliminare coloro che ne soffrono. Così, quando parliamo di “bambino con la sindrome di Down”, entriamo nella nuova eugenetica».

Gli istinti di Bush, gli insetti di Kinsley
Da un sondaggio dell’Alan Guttmacher Institute è emerso che solo l’1 per cento degli aborti avviene nel primo trimestre. Alcuni Stati americani hanno puntato a estendere al feto la cittadinanza: la Louisiana cerca di approvare una legge in cui «il non nato è un essere umano dal momento del concepimento», il Nebraska un’altra legge in cui si deplora «la distruzione delle vite umane», la Pennsylvania tenterà di «estendere al feto le protezioni della legge». In questo clima, Ramesh Ponnuru spiega come il giudice Harry Blackmun, che ha scritto la sentenza Roe, pensava che gli esseri umani non nati non avessero titoli per meritare la protezione accordata agli americani dal 14esimo emendamento. Racconta come i nientificatori della vita siano per lui tutti «futilitaristi». E al chiedergli quale domanda fondamentale lo abbia spinto a scrivere un libro dal nitore culturale così inusuale, risponde: «Una domanda molto semplice: esistono i diritti umani? Abbiamo certi diritti semplicemente perché siamo umani? Oppure certi esseri umani hanno dei diritti e altri no? Ecco, i liberal la pensano così. Le fondamenta dell’eguaglianza umana vengono negate in principio se consentiamo che alcuni membri della specie umana vengano trattati come mere cose. Ma se cade la Roe vs. Wade, i pro-life saranno in grado di dimostrare un’altra verità sull’aborto: possiamo vivere senza».
Nel frattempo la Cornell University, la prima università laica degli Stati Uniti, ha approvato una versione liberal del Giuramento di Ippocrate, con cui si accede alla professione medica e che costringe l’aspirante medico a giurare di non eseguire aborti. Venendo dunque alla politica protettiva di Bush sull’embrione, che lo ha spinto a usare il suo primo veto presidenziale, Ponnuru puntualizza: «è una delle più controverse e meno comprese. Gli istinti di Bush, specialmente morali, sono dei buoni istinti. Per molti l’embrione non è una persona perché non ha occhi né coscienza. Secondo il columnist Michael Kinsley l’embrione ha meno qualità di un “insetto”. Ma l’embrione è vivo, non morto o inanimato. Ogni essere umano sulla faccia della terra una volta è stato così. Non è vivo come è viva una cellula della pelle, è un organismo distinto che ha la capacità di dirigere il proprio sviluppo, è un organismo umano che non appartiene ad altre specie». Non abbiamo il diritto di dominare, selezionare o uccidere un essere umano, embrione o feto che sia, perché ha una disabilità, assomiglia a Peter Singer, ha un basso quoziente intellettivo o si rifiuta di rendere noto il proprio test attitudinale, come l’editore del New York Times. «Il diritto alla vita dei membri della nostra specie non dipende dal numero delle braccia, dall’altezza o dall’età. Nessuno chiede eroici salvataggi degli embrioni umani, la legge deve solo proibirne la deliberata distruzione. Distruggere queste vite per la ricerca è qualcosa a cui la giustizia, richiamata dalla ragione, ci chiede di resistere. Se mio cugino è in un edificio che ha preso fuoco con altre due persone, farò di tutto per salvarlo. Ma non sparerei mai alle altre due persone anche se aumentassero le sue possibilità di salvarsi».

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