La morte fuori dallo sguardo

Di Pino Suriano
23 Gennaio 2022
«Quotidianamente sentiamo pronunciare il numero dei morti, ma si sente che non c’è una vera pietas». Dialogo con il poeta Franco Arminio
Funerale con mascherine e precauzioni contro il coronavirus

Funerale con mascherine e precauzioni contro il coronavirus

«La morte fuori dallo sguardo». Franco Arminio, poeta e paesologo – è in uscita per Einaudi la raccolta poetica Studi sull’amore – negli ultimi tempi lo scrive e riscrive con preoccupazione quasi ossessiva.

«La pandemia ha smesso di essere la faccenda di chi ogni giorno muore ed è ormai diventata la questione del potere o non potere fare qualcosa, entrare o non entrare in un locale. Quotidianamente sentiamo pronunciare il numero dei morti, 317, 322, ma si sente che non c’è una vera pietas, un vero sconforto (lui quei numeri li pronuncia sillabando, come in un verso di poesia, ndr). Dovrebbe esserci un lutto nazionale perenne e invece continuiamo a parlare solo dell’Italia che produce».

Si è persa di vista la morte?

Nel mondo contadino la morte accadeva davanti agli occhi di tutti: si moriva in casa, si moriva davanti alla famiglia, davanti alla gente della strada. Poi pian piano si è andati a morire in luoghi lontani dallo sguardo, e ora con il Covid abbiamo raggiunto l’inaudito della morte solitaria: in molti casi non c’è stato neppure un infermiere quando si è dato l’ultimo respiro. Tutto questo dramma per me è come non visto, non raccontato. Ed è una perdita per tutti noi.

Dice e scrive spesso di aver percepito una diffusa disattenzione rispetto a tutto ciò, anche da chi dovrebbe essere più attento. A chi si riferisce?

Al cattolicesimo italiano, per esempio, proprio quel mondo che dovrebbe tutelare in modo speciale l’esperienza del morire, il suo senso sacro. Mi sarei aspettato una reazione più intensa quando c’è stato il blocco dei funerali, qualcosa di troppo grande per essere così facilmente accettato. Io l’ho sentita come una vera invasione di campo, avvenuta senza che i custodi di quel campo opponessero resistenza. Forse per il timore di apparire fanatici, ci si è ritirati nell’accettazione, eppure il funerale è un territorio specifico della Chiesa e delle religioni, forse bisognava dire con più forza allo Stato: «Aspettate, siamo noi che ci occupiamo di queste cose».

Perché parla di “perdita”?

Perché, secondo me, quando vedi l’agonia, il morire, ti proietti nel mondo sociale con un po’ di attenzione in più. Di fronte alla morte rinnovi il tuo sentimento religioso, la tua pietas verso gli altri. La distanza da tutto questo, al contrario, ci rende più sgarbati e protesi unicamente alla performance economica. Penso che sia figlio di questa distanza dal morire anche il nostro capitalismo brutale, che la morte l’ha rimossa. Non sto propugnando idee comuniste o rivoluzionarie, ma mi chiedo, se non riusciamo a smantellare questo modello, non possiamo provare a concepire un capitalismo “più caldo”, più attento a questa dimensione?

Anche nella sua poetica è forte l’attenzione ai morti. Che senso ha rapportarsi con ciò che non c’è più?

Nella mia vita di paese, da ragazzo, quando uscivi si parlava dei vivi e dei morti. Era quasi indifferente che una persona fosse viva o morta, la si evocava con frequenza e con naturalezza. I morti facevano ancora parte della comunità: stavano al cimitero ma venivano ancora chiamati in ballo. Adesso invece c’è una sorta di rimozione: fatto il funerale vengono citati assai meno, anche nei discorsi da bar. Come se la vicenda ce la giocassimo solo noi vivi. Invece, secondo me, in una comunità civile, alta, il vivo e il morto sono compresenti. Non a caso nelle città antiche, anche architettonicamente (mi viene in mente Velia) trovavi prima i monumenti funebri e poi i negozi. Ogni città dovrebbe prima presentare i suoi morti e poi le sue aziende. Anzi, mi viene ora questa immagine: dovremmo presentare prima la nostra azienda più importante, l’azienda della memoria. Dovrebbe essere la principale attività di un paese, e tutti dovremmo esserne addetti. Se sei stato con una donna e non ti ricordi le emozioni che hai provato, è come se non ci fossi stato. È la memoria a darci spessore. Dovremmo essere “lavoratori della memoria”. E, del resto, ora che ci penso, alcuni di noi lo sono già: un insegnante di italiano, in fondo, cosa fa, se non portare in vita i morti di fronte ai propri studenti? Il programma scolastico di letteratura, in effetti, è fatto di soli morti.

Una domanda al paesologo (così si autodefinisce Arminio, per la sua attenzione allo sviluppo delle aree interne italiane, ndr). Le sembra che questo aspetto sia più sentito nei paesi rispetto alle città?

Sì, nei paesi la morte è più presente e vicina, pur con differenze specifiche: in un paese di mille abitanti è più forte che in uno di diecimila, al Sud lo è più che al Nord, in un paese di montagna più che in un’area balneare. Nei paesi la morte è ancora un argomento. È come se ci fosse una competenza con il morire. Nel mondo urbano, senza voler generalizzare, talvolta la morte sembra quasi un incidente sul lavoro, poi si riprende la marcia. Sembra che si possa dire: “abbiamo avuto un imprevisto”, e invece la morte non è un imprevisto, la morte è il nostro orizzonte. «I vivi – diceva Marcel Proust – sono dei morti non ancora entrati in funzione».

Eppure, paradossalmente, c’è chi anche ostenta la morte. Ha visto le foto dei politici di fronte alla tomba di Sassoli? Che effetto le hanno fatto?

Questa è gente che il senso della morte lo ha perso. Scrivi pure il tuo messaggio di cordoglio, ma cosa me ne frega del fatto che tu stai davanti alla bara? Perché vuoi farmelo vedere? Che bisogno c’è della tua immagine? Metti una foto di Sassoli e scrivi sui social quello che vuoi, ma tu togliti.

Ha trovato consonanza di intenti, in questa suo sentire preoccupato, nel mondo intellettuale?

Molto poco. Su questo livello mi sono inteso con Giovanni Lindo Ferretti (ex leader del gruppo musicale CCCP, ndr). Sono sicuro, però, che mi avrebbe capito anche Pasolini. A sinistra, nella cultura progressista (a cui in un certo senso mi ascrivo) forse si dà per scontata una certa diffidenza verso il religioso e il sacro. Secondo me è un errore: si può essere rivoluzionari e avere un grande senso del sacro. Non è una cosa di destra.

Come giudica, invece, il modo in cui la televisione italiana ha trattato la vicenda della pandemia?

Secondo me sta lavorando proprio male. Non abbiamo visto, per esempio, un documentario fatto bene su un morto di Covid. Ne sarebbe bastato anche solo uno, una storia personale. Sono accadute migliaia di storie che potevano essere raccontate con il sentimento di pietas di cui parlavo prima, e invece hanno fatto i mercanti del panico. Una condizione tanto eccezionale, un morbo come questo, che ci ha cambiato la vita, meritava una risonanza estetica maggiore. I grandi registi italiani, come Paolo Sorrentino, andavano ingaggiati per stare una settimana negli ospedali più funestati dalla pandemia e tirare fuori qualcosa di grande, un film o un documentario. Andava colto di più l’elemento tragico e inaudito di questa vicenda. Ecco il fatto clamoroso è proprio questo: l’inaudito è arrivato e subito ci siamo mossi per banalizzarlo. L’inaudito è arrivato e noi non eravamo pronti.

Foto Ansa

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.