
La mistificazione di Pretoria
«La campagna internazionale per la fornitura gratuita e generalizzata di antiretrovirali ai sieropositivi nel Terzo mondo? Un bell’esempio di demagogia e schizofrenia. Demagogia perché chi la propone sa benissimo che in Africa non esistono sistemi sanitari in grado di gestire terapie così sofisticate. Schizofrenia perché, mentre qui in Europa si cerca di individualizzare la terapia il più possibile, di arrivare addirittura a dosare i medicinali nel sangue del singolo paziente per avere la massima efficacia e minimizzare gli effetti collaterali, per il Terzo mondo si propone un trattamento standard generalizzato per milioni di persone». Il bastian contrario che parla così è Giuliano Rizzardini, attuale primario per le malattie infettive dell’ospedale di Busto Arsizio. Incurante del martellamento mass-mediatico che ha presentato il processo di Pretoria sulla legittimità di produrre e importare medicinali in violazione delle disposizioni internazionali in materia di brevetto come una battaglia di civiltà “per il diritto a non morire di Aids”. Fino a due anni fa era consulente per l’Istituto Superiore della sanità del programma Aids italo-ugandese presso il Lacor Hospital di Gulu, nell’Uganda settentrionale, è l’esperto in materia di Aids della Ong italiana Avsi e vanta dieci anni di esperienza nella sanità africana. È lui che si prende la responsabilità di gettare sul tavolo le ragioni del buon senso, troppo spesso assenti nelle grandi campagne ispirate al politically correct.
Piani di salvataggio pensati a tavolino
La crociata, nel frattempo, ha cambiato méta. Era stata indetta contro l’avidità delle multinazionali farmaceutiche, accusate di praticare, per le loro produzioni di medicinali anti-Aids, prezzi insostenibili per i malati e i sistemi sanitari del Terzo mondo. Cocktail di antiretrovirali del costo di 10-12 mila dollari all’anno sono evidentemente fuori della portata di paesi dove il reddito medio pro capite è inferiore ai 1.000 dollari all’anno, e spesso anche ai 500. Ma il moltiplicarsi delle intese fra case farmaceutiche e governi africani per forniture di antiretrovirali e altri prodotti utili nella lotta all’Aids con il 90% di sconto e infine l’accordo extragiudiziale fra il cartello di 39 case farmaceutiche e il governo sudafricano che si stavano fronteggiando nel celebrato processo di Pretoria hanno costretto gli attivisti a modificare la rotta: l’obiettivo principale non è più quello di abbattere i prezzi e sancire il diritto dei paesi poveri ad ignorare le legislazioni in materia di brevetti (con la facilmente prevedibile conseguenza che nessuno investirebbe più capitali nella ricerca farmaceutica), ma di premere sui governi dei paesi ricchi perché si impegnino a finanziare una grande operazione di “salvataggio” dei paesi poveri dall’Aids. Il piano c’è già e ci sono già i numeri: un gruppo di accademici di Harvard, capeggiato dall’esperto di problemi dello sviluppo Jeffrey Sachs, ha messo a punto un programma “per salvare 5 milioni di vite”. Prevede test di depistaggio per 10 milioni di persone, forniture di medicinali per 1 milione di pazienti e i costi per il trattamento clinico e la supervisione delle terapie. Spesa prevista: 1 miliardo di dollari il primo anno, destinati a diventare 3 nel giro di cinque anni. Per avere un’idea dell’entità della cifra, si pensi che gli aiuti annuali dei paesi ricchi a quelli poveri ammontano in tutto a 50 miliardi circa di dollari all’anno. Trattasi di un progetto insensato. Rizzardini spiega perché.
Perché si rischia di peggiorare le cose
«Qui da noi i trattamenti a base di antiretrovirali hanno un tasso di fallimento del 30% soprattutto a causa della difficoltà di ottenere dai pazienti un’aderenza perfetta alla terapia. Cosa succederebbe in Africa? A Gulu ho seguito per parecchio tempo i malati di Tbc: ebbene, almeno il 50 per cento di loro non completava il ciclo di cure. Una volta dimessi, dopo 3-4 mesi non tornavano più in ambulatorio per la somministrazione dei farmaci. Cioè non appena si sentivano meglio sospendevano il trattamento. Alcuni addirittura vendevano al mercato nero i farmaci che consegnavamo loro al momento della dimissione dopo i due mesi di ricovero obbligatorio: credevano di essere guariti perché non sputavano più sangue, e allora rivendevano i farmaci per comprarsi qualcos’altro. Se questo è l’andazzo per una terapia che deve durare nove mesi, immaginatevi cosa succederebbe con una terapia che deve durare tutta la vita, come quella a base di antiretrovirali!». Secondo Rizzardini la distribuzione a pioggia di antiretrovirali nei paesi poveri non è solo uno spreco colossale di risorse, ma rischia di essere un attentato alla salute: «Se la pressione sedativa è fatta male – e questo in Africa avverrebbe su larga scala – si rischia di far emergere ceppi di Hiv resistenti ai farmaci attualmente in uso. E questo accadrebbe non in Europa, dove si infetta una persona ogni 10 mila all’anno, ma in un continente dove si infetta una persona ogni 25. Un virus resistente che si diffonde in una regione dove il contagio è intenso: sarebbe una catastrofe peggiore di quella attuale». Ma allora cosa si può fare per chi nel Terzo mondo si è preso l’Aids? «Quello che alla conferenza mondiale di Durban hanno chiesto ministri della sanità ed esperti dei paesi africani: rendere disponibili a buon mercato non tanto gli antiretrovirali, per cui non sono ancora pronti, ma i prodotti che combattono le infezioni opportunistiche. Se io avessi potuto avere tutto il fluconazolo di cui avevo bisogno, avrei liberato dalla candidosi tanti malati che avrebbero potuto ricominciare a mangiare cibi solidi, avrei migliorato la qualità della loro vita». Ragionamenti troppo concreti e dettagliati per i militanti dell’ennesima campagna fatta dei soliti ingredienti: toni demagogici, contenuti irrazionali, pretestuosità ideologica.
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