Braggion: «La magistratura si tenga alla larga dalla politica partitica»

Di Emanuele Boffi
17 Febbraio 2021
Intervista al giudice membro del Csm: limitare gli sconfinamenti dell’Anm e far tornare la giustizia «al servizio dei cittadini, non un mezzo per imporre le proprie idee»
Il Consiglio superiore della magistratura (Csm)

Nella sua ultima rubrica su Tempi (“Troppe eccezioni inaccettabili accettate senza troppe eccezioni”), Alfredo Mantovano ha notato che esiste una questione di «enorme rilievo istituzionale» a proposito del Consiglio superiore della magistratura. Ne parliamo con il magistrato Paola Braggion, consigliere del Csm, di Magistratura indipendente.

A seguito del caso Palamara, 6 componenti eletti del Csm sono stati costretti alle dimissioni e un settimo, Piercamillo Davigo, ha cessato il mandato per raggiunto limite di età. Quindi siete 9 su 16. Ha scritto Mantovano su Tempi: «Oggi la componente togata rispecchia ancor di meno rispetto al 2018 gli orientamenti dei magistrati che votano». È un problema? Come si risolve? 

Certamente la compagine attuale del Consiglio è diversa da quella iniziale, a causa di meccanismi di subentro previsti dalla legge e di tre elezioni suppletive (due già avvenute e una prevista tra pochi mesi) e non corrisponde all’opzione espressa dai magistrati nel 2018. Con una terza elezione di un solo membro non potrà di nuovo essere rispettata la proporzionalità nella rappresentanza dei magistrati di diversi orientamenti culturali e ideali. Il problema non credo sia risolvibile, se non alle prossime elezioni per il rinnovo di tutto il Consiglio, che auspico avvengano con nuove regole. 

Paola Braggion

Alle ultime elezioni dell’Anm su 9.401 magistrati italiani si sono registrati per il voto in 7.100 e hanno effettivamente votato in 6.101 (6.045 i voti validi). Quindi ha votato il 64 per cento. Come ha rilevato sempre Mantovano la “corrente” più numerosa all’interno del corpo della magistratura è costituita da chi non si sente rappresentato da nessuno. Perché questa “disaffezione”? Quali i suoi motivi? Quale la cura?

La scarsa affluenza al voto deve imputarsi a mio avviso a due fattori. Uno riconducibile alla modalità telematica utilizzata a causa della pandemia, ma in gran parte è da intendersi manifestazione di sfiducia e disaffezione di molti colleghi che, ritengo, lamentino la scarsa rappresentatività negli ultimi anni di un’associazione di categoria che non si occupava più delle problematiche della magistratura, delle condizioni di lavoro, della sicurezza dei luoghi dove gli operatori della giustizia svolgono la loro attività a servizio dei cittadini, delle interlocuzioni con il ministero per l’organizzazione degli uffici e per le questioni relative all’amministrazione della giustizia per la salvaguardia dei princìpi di autonomia ed indipendenza dell’ordine giudiziario. Spesso l’Anm si era fatta portavoce di opinioni politiche assumendo un ruolo che non è condiviso da molti colleghi, con comunicati pro o contro l’indirizzo politico del governo del momento. Se l’Anm vuole tornare ad essere un interlocutore credibile per i soggetti istituzionali del paese, non deve influire sulle autonome scelte del Consiglio superiore, non deve sconfinare impropriamente in ambito politico e deve tornare ad occuparsi di problemi degli uffici giudiziari e dell’amministrazione della giustizia secondo le sue proprie finalità statutarie. 

Luciano Violante e il giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi dopo il caso Palamara hanno scritto che c’è una «questione morale tra i magistrati». Il giornalista Piero Sansonetti ha scritto che c’è una questione politica, cioè che c’è un eccesso di potere nelle mani della magistratura. Che ne pensa? 

Vorrei rispondere con le parole di un magistrato integerrimo, ucciso dalla mafia, che tra pochi mesi la Chiesa proclamerà beato, Rosario Livatino. Egli, nella conferenza “Il giudice nella società che cambia” tenuta nell’aprile del 1984, affermava: «Il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato». Direi con Livatino che «solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni (di persona seria, responsabile, equilibrata) la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha». E proprio in virtù del potere che i magistrati hanno in ordine alla libertà personale e alla tutela dei diritti delle persone devono essere rigorosi, limpidi, indipendenti, il più possibile liberi da condizionamenti. «L’indipendenza del giudice… non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai princìpi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza…». Queste parole disegnano magistralmente il profilo di chi esercita il potere che la Costituzione gli ha affidato come servizio ai cittadini e alla società e non come lustro personale o come mezzo per imporre idee personali.

In una intervista precedente alla sua elezione del Csm lei disse: «È finita l’epoca in cui i gruppi associativi rispondevano ad una ripartizione politica». Qual è dunque il ruolo di un magistrato? Come deve essere il suo rapporto con la politica? 

Credo che per essere e apparire liberi e terzi sia necessario che noi magistrati, nell’esercizio dell’attività giudiziaria, siamo il più possibile lontani dalla politica partitica e che ci asteniamo da manifestazioni esplicite e pubbliche di opinioni politiche per evitare il sospetto di parzialità o di condizionamento ideologico. Ognuno di noi è l’insieme delle proprie opinioni e dei propri princìpi, vive e lavora secondo coscienza, ma devono essere chiari i binari entro cui si muove la nostra attività giurisdizionale, a pena di condizionamenti indebiti e di una immagine turbata dal sospetto di parzialità. L’innegabile diritto di esprimere opinioni deve avvenire, per un magistrato, con continenza e sobrietà, con modalità che non creino all’esterno assimilazioni ideologiche con questo o quel partito.

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