
La laicità degli altri. Vade retro secolarismo
L’osservatore occidentale post-moderno, che si tratti di un liberal americano, oppure di un fautore dello Stato laico alla francese, o di un cattolico adulto latino, guarda il mondo attorno a sé con l’aria di sufficienza di chi sa già tutto. In Russia Putin trasforma l’insegnamento della religione in materia obbligatoria in tutte le scuole e la Duma vuole introdurre una legge severa contro la blasfemia; in Egitto i partiti si accapigliano sul peso da dare al riferimento all’islam nella nuova costituzione, nelle leggi ordinarie e nelle rinnovate istituzioni; in Israele gli ebrei ultraortodossi sfondano la barriera del 10 per cento del totale della popolazione e moltiplicano le loro richieste di segregazione sessuale sui mezzi di trasporto in nome dei precetti religiosi. Il liberal-laicista-cattolico adulto scuote la testa: lui sa che la religio instrumentum regni umilia la vera natura della fede, sa che se i vincoli comunitari di tipo religioso non diventano irrilevanti al momento di fare politica, si torna alle guerre di religione, sa che fra il nazionalismo religioso dell’agnostico Charles Maurras e i dualismi natura-sopranatura del cattolico Jacques Maritain è sempre meglio scegliere i secondi e tenersi alla larga dal primo. Punti di vista non banali, meritevoli di discussione, ma che agli occhi di russi, musulmani arabi ed ebrei israeliani hanno un grosso limite: non intersecano l’attualità dei loro mondi ai confini dell’Europa, suonano lontani ed estranei. Mondi che in passato hanno mutuato filosofie e ideologie dall’Occidente: comunismo, nazionalismo arabo, sionismo e altri modernismi sono figli dell’illuminismo e del romanticismo. Mondi che oggi guardano con sgomento la piega che la separazione fra politica e religione ha preso in Europa e comincia a prendere in America: libertà di bestemmia contro le grandi religioni, eliminazione dei simboli religiosi dallo spazio pubblico, tentativi di vietare atti rituali come la macellazione halal o la circoncisione dei nuovi nati, sovvertimento delle realtà del matrimonio e della filiazione con la parificazione delle coppie omosessuali a quelle eterosessuali.
Mentre gli esperimenti politici e sociali euro-americani del passato stimolavano il desiderio mimetico, quelli contemporanei suscitano il massimo sospetto. Il futuro che le nuove leggi sull’uguaglianza e sul matrimonio promettono non è necessariamente attraente, se dovesse corrispondere a ciò che prevede Aidan O’Neill, uno dei più famosi avvocati inglesi, incaricato dalla Coalition4Marriage (britannici contrari alla legge che il premier Cameron sta facendo approvare) di valutare le conseguenze dell’approvazione del matrimonio gay sulla vita sociale: «Un ministro della Chiesa d’Inghilterra è cappellano di un ospedale del Servizio sanitario nazionale (Nhs). Durante la celebrazione di un matrimonio nella sua parrocchia dice nell’omelia che il matrimonio è solo l’unione di un uomo e una donna. I suoi capi all’Nhs lo vengono a sapere, e gli erogano una sanzione per aver violato la politica sulla diversità dell’Nhs. Aiden O’Neill sostiene che in base all’Equality Act del 2010 i manager dell’Nhs avrebbero una base legale per giustificare la loro azione, anche se il cappellano stava predicando fuori dall’orario di servizio. La situazione sarebbe identica per qualsiasi cappellano impiegato nel settore pubblico: quelli delle forze armate e quelli dei college universitari».
Come si permettono le Pussy Riot?
Ancora: «A un’insegnante delle elementari viene chiesto di utilizzare un libro di favole che ha a tema il matrimonio gay intitolato Re e Re. È raccomandato dall’assessorato comunale e da una Onlus che promuove i diritti dei gay. L’insegnante dichiara che l’utilizzo del libro andrebbe contro le sue convinzioni religiose sul matrimonio. Le viene detto che sarà licenziata se non ottempera alla richiesta. O’Neill dice che la scuola sarebbe nel pieno diritto di licenziare l’insegnante se continua a rifiutare di usare quel materiale».
Altro esempio. «Una coppia fa domanda per avere un ragazzino in affidamento. Agli assistenti sociali i due dichiarano di essere motivati dalla loro fede cristiana. Sentito ciò, gli assistenti sociali chiedono quale sia la loro posizione in merito al matrimonio gay. La famiglia dichiara di essere contraria. Gli assistenti sociali bloccano la pratica d’affido in base alle loro politiche contro la discriminazione e per l’eguaglianza. O’Neill dice che un’agenzia per l’affidamento dipendente da un Comune disporrebbe delle basi legali per agire in quel modo».
È al cospetto di queste prospettive che trovano spiegazione provvedimenti inani e un po’ comici come la nuova legge russa contro la “propaganda gay”. Putin, come pure leader politici extraeuropei meno autocratici di lui, non si muove esclusivamente per rafforzare il suo potere attraverso la legittimazione della Chiesa ortodossa. Ha detto a Tempi Giovanna Parravicini, ricercatrice di Russia Cristiana e animatrice del centro culturale Biblioteca dello Spirito a Mosca: «Dopo 70 anni di ateismo in Russia si riconosce pubblicamente che religione e fede sono aspetti fondamentali della struttura umana e per questo vanno insegnati. (…) Putin si è ritrovato un paese in crisi, non solo economica, ma soprattutto umana e familiare. I problemi dell’alcolismo e della tossicodipendenza erano enormi. Ha pensato di chiedere aiuto alla Chiesa, perché moralizzasse la società. Il popolo russo ha ancora una domanda profonda di senso che aspetta una risposta e che la crisi dell’uomo che attraversa oggi mette in evidenza». Invece Putin viene liquidato come un manipolatore della religione per usi politici, la dura sentenza del tribunale di Mosca contro tre componenti del gruppo musicale Pussy Riot che avevano profanato la cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca con la loro preghiera punk intesa a denunciare la complicità della Chiesa ortodossa con le politiche del governo, viene interpretata come una manovra del potere volta ad accattivarsi il sostegno del clero. Ma i sondaggi di opinione dell’affidabile Istituto Levada hanno rivelato che solo il 6 per cento dei russi simpatizza con le Pussy Riot, e solo il 19 per cento riconosce al loro atto la dignità di una protesta politica; per il 42 per cento si è trattato di un comportamento insultante contro i credenti, e per il 29 per cento di un puro atto vandalico.
Altrettanto equivocata è la situazione egiziana. Gli osservatori occidentali si compiacciono di raffigurare uno scontro fra integralisti religiosi, rappresentati da Fratelli Musulmani e salafiti, e fautori dello Stato laico e secolare, comprendenti le forze giovanili che diedero il via alle proteste di piazza Tahrir e i partiti egiziani tradizionali. Così non è: per quanto la violenza di piazza sia purtroppo diventata un tratto permanente del confronto politico in Egitto, ad alimentare gli scontri non è l’alternativa fra laicità e Stato confessionale; sia gli islamisti che i loro oppositori sono convinti che la religione ha un ruolo decisivo da svolgere nella vita della società: divergono sulla modalità, non sulla sostanza della cosa.
Una tassa per convertirli tutti
Basta leggere la Dichiarazione contro l’uso della violenza promossa dall’imam di al-Azhar e firmata il 31 gennaio da tutte le principali forze e personalità politiche egiziane: non solo i partiti dei Fratelli Musulmani e dei salafiti, ma gli ex candidati alle elezioni presidenziali Amr Mussa (laici liberali e di sinistra), Mohamed El Baradei (liberaldemocratici), Hamdeen Sabbahi (nasseriani di sinistra) e i rivoluzionari della prima ora come Wael Ghoneim. Il testo reca anche le firme dei capi delle Chiese cristiane, compresa quella del nuovo papa copto Tawadros II. Esordisce così: «Nel nome di Dio clemente e misericordioso. In nome della massa dei giovani che hanno fatto la Rivoluzione e della nobile al-Azhar, antica istituzione scientifica nazionale, associandoci ai rappresentanti dei grandi ulema della moschea e delle Chiese egiziane, esprimiamo il nostro attaccamento ai princìpi nazionali e ai valori supremi della Rivoluzione del 25 gennaio (…). I firmatari di questo documento si impegnano a riconoscere quanto segue: 1) il diritto umano alla vita è uno dei fini più elevati di tutte le leggi religiose, le religioni e le legislazioni, e non vi può essere del bene in una nazione o in una società nella quale viene versato il sangue dei suoi cittadini, o calpestata la loro dignità».
In un paese come l’Egitto, dove il panorama religioso odierno è stato profondamente modellato dalla storia del potere politico, a nessuna autorità religiosa della maggioranza islamica e a nessun politico proveniente dalla stessa verrà mai in mente di sciogliere completamente il nodo che stringe insieme religione e politica. L’Egitto, infatti, è diventato un paese musulmano grazie alla gestione egemonica del potere da parte di quella che all’inizio era una minoranza religiosa: gli egiziani, che erano cristiani, salutarono come liberatori gli arabi musulmani che cacciarono i governanti bizantini e ne presero il posto nel 639. L’imposizione di tasse speciali che solo la popolazione cristiana era tenuta a pagare per godere della piena protezione dello Stato (la famosa jizya, la tassa di sottomissione) fece sì che lentamente l’affiliazione religiosa mutasse. Dopo tre secoli i musulmani divennero maggioranza. Oggi costituiscono il 90 per cento della popolazione. Chi pensa spiritualisticamente che il destino storico di una religione non abbia niente a che fare con gli orientamenti del potere politico, farebbe bene a studiarsi la storia dell’Egitto e degli altri paesi del Nordafrica, già sede di fiorenti comunità cristiane.
Che la secolarizzazione sia il destino ineluttabile di tutte le culture del mondo è un’idea dominante soltanto in Occidente. E anche lì gli osservatori più acuti propongono sfumature. Ricordava nel novembre scorso in una conferenza a Londra il cardinale Angelo Scola: «Mentre la società tecnologica, debole in termini di ideali, tende ad espellere il senso religioso, non è impossibile che l’attuale stallo possa risolversi in un ritorno al trascendente. In che direzione stiamo andando? Benedetto XVI attira incessantemente l’attenzione sul preoccupante indebolimento della pratica religiosa in Europa, un fenomeno dal quale anche le comunità musulmane sul continente europeo non sono esenti (…). D’altra parte, per quanto riguarda i paesi a maggioranza islamica, la pratica religiosa sembra aver raggiunto uno dei più alti livelli della loro intera storia, al punto che recentemente il giurista tunisino Yadh Ben Achour ha stigmatizzato quella che ha definito un’“indigestione religiosa”».
A vantaggio della coesione sociale
Che la politica sia in grado di influenzare il destino della fede nel mondo lo fanno pensare i risultati di uno studio del Norc Institute dell’Università di Chicago, che ha analizzato l’andamento della fede religiosa in 30 paesi industrializzati fra il 1991 e il 2008. In tutti la percentuale di coloro che si dichiarano credenti è poco o tanto diminuita, tranne che in due, dove è aumentata significativamente: Russia e Israele. Qui coloro che credono nell’esistenza di Dio sono aumentati rispettivamente del 17,3 e del 23 per cento nell’arco di tempo considerato. Corrispondentemente, gli atei sono diminuiti: dell’11,7 per cento in Russia e del 9,6 in Israele. Mentre in Francia crescevano del 5,6 per cento e nel Regno Unito dell’8,1. A differenza di tutti gli altri stati, in Russia e in Israele i governi in carica hanno condotto politiche attive pro-religione. E il risultato, a quanto pare, va al di là degli interessi di potere dell’alleanza trono-altare. Si delinea così una specie di cordone sanitario steso attorno all’Europa secolarista da tre mondi culturali e politici profondamente diversi (anche nemici) fra loro – quelli di russi, arabi ed ebrei israeliani – ma accomunati dal riconoscimento che la coesione sociale ha bisogno della religione. Che è poi l’etimologia della parola secondo Lattanzio: religio da re-ligare, “legare insieme”.
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2 commenti
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Siamo noi europei e nordamericani che nell’illusione di essere “moderni” siamo difatto retrogradi e fuori dal tempo. Condivido il contenuto dell’articolo di Rodolfo Casadei.
Sì infatti io mi stò facendo crescere la barba.