
La guerra dei piacioni
Walter Veltroni accarezza il potere nazionale con mani esperte ma il suo turno non è ancora giunto. Uomo di tattica morbida, ma dalla strategia di lunga gittata, si prepara al voto del prossimo fine settimana con un solo obiettivo: confermarsi di lusso al primo turno in Campidoglio e accumulare luccichio da spendersi in prospettiva, quando vorrà scendere a valle per dare l’assalto a Palazzo Chigi. Dovesse infatti subire l’onta del ballottaggio con Gianni Alemanno, l’appannamento metterebbe subito in allarme compagni di bottega e concorrenti per il cosiddetto ricambio generazionale che si prepara nell’Ulivo.
In realtà in questi ultimi giorni le cose non gli stanno andando benissimo, ma per capire bisogna saltare all’autunno inoltrato dell’anno scorso, quando l’Ingegnere Carlo De Benedetti (patron del gruppo l’Espresso) confessò urbi et orbi una predilezione per i dioscuri del Partito Democratico che verrà: il proteiforme Francesco Rutelli, maestro del possibile ed eccellente reinventore di se stesso; e appunto Walter, un misto di kennedismo alla vaccinara e famigliarità con l’establishment. CdB fu inesorabile nel cucire addosso a Romano Prodi la divisa di ‘amministratore straordinario’ d’una transizione italiana al post-berlusconismo. Quanto invece alla transizione successiva, dai partiti storici all’ibrido ‘democrat’, i campioni del futuro sono quei due ragazzi lì, giovani e spregiudicatissimi.
Veltroni è uomo oculato, maestro nel preparare raccolti maneggiando, oggi, tralci di politica che saranno la grassa vendemmia di domani. Sa che D’Alema e Fassino sono al momento invalicabili e non intende replicare una sfida con l’attuale capo della Farnesina, come fu quella perduta per la segreteria dell’ex Pci dopo le elezioni del 1994. Dunque la via al potere di Walter deve passare per il rafforzamento del sistema immaginifico che ha fatto del veltronismo una categoria della politica impalpabile ma redditizia. Trattasi di un’autentica filiera produttiva che collega il culturame romano (il panem et circenses che arricchisce docenti e musici mentre stordisce i cittadini) con il paesaggio cinematografico (dalla meglio gioventù dei registi alla Bellocchio, fino al doppiaggio veltroniano di Rino il Tacchino sindaco dei polli, personaggio del disneyano ‘Chicken Little’), la dirigenza occulta della Rai (metà degli sceneggiatori di viale Mazzini) con il volto presentabile dello sport, meglio se pallonaro (vedi la pastorale romana del ‘più Totti per tutti’ gestita a suon di barzellette con il grande vecchio Maurizio Costanzo).
Uno a zero per la Margherita
Da questo meccanismo cittadino dovrebbero quindi irradiarsi propaggini in altri e più alti palazzi. Veltroni contava di chiudere sontuosamente il circolo aggiudicandosi il ministero dei Beni culturali e tessendo così un filo diretto tra sé e sé. Per questo ha candidato il proprio uomo Goffredo Bettini, già rappresentante per conto del sindaco al tavolo delle candidature diessine. Con il risultato che Bettini ha sacrificato le aspirazioni di alcuni veltroniani doc come l’ex Usigrai Beppe Giulietti e, credeva lui, Giovanna Melandri. Mentre alla fine, sul più bello, è planato sul ministero il gemello concorrente Rutelli, scompaginando i piani e sbarrando la strada al tentativo d’insediargli al fianco, a titolo di risarcimento, l’altro veltroniano Gianni Borgna (assessore alla Cultura della Capitale). Invece la Melandri ce l’ha fatta per un nulla e si è conquistata un ministero senza portafoglio ma dalla funzione che più veltroniana non si può: Giovani e Sport. Resta da vedere se lo gestirà in quota Walter o farà valere le ragioni della vendetta. In ogni caso la voce del sindaco si è propalata attraverso il senatore Esterino Montino, che è anche il console massimo della federazione romana Ds: «Un brutto colpo al modello Roma». E già perché il giovane Walter ha investito un intero capitale politico nel progetto di ‘esportare Roma’.
Dal circo massimo a palazzo Chigi
Che poi, al netto delle importazioni parigine, significa spettacolarizzare ogni atto rendendolo equo e solidale come i cibi biologici. Significa trasformare la ricchezza privata della città (che ha un pil quattro volte più robusto di quello nazionale) nel grande spot pubblico di una giunta miracolata da una cittadinanza migliore di quanto non si creda. Significa porgere ai mezzi d’informazione il ritratto di un sistema vincente perché nessuno, causa carenza di opposizione credibile, l’ha ancora messo alla prova di un’amministrazione diversa. Su queste basi Veltroni concepisce il proprio futuro da riserva della politica nazionale, come fosse l’indispensabile outsider sempre pronto a normalizzare una sinistra finora incapace di esprimere un premier di scuderia. È chiaro che è lui il candidato numero uno per inaugurare la stagione nuova del riformismo lattiginoso che s’annuncia nelle pieghe del tardo ulivismo. Ma per giungere integro al traguardo Walter deve farsi spettatore attivo di trasformazioni urgenti. Per esempio la conclusione del cosiddetto lavoro sporco da parte di chi occupa oggi la prima fila. Il che avverrà il giorno in cui Ds e Margherita verranno frullati nel laboratorio ‘democrat’, ma non sarà poi così facile pensionare uno come D’Alema, né siglare una pacificazione indolore con i vari Fassino, Franceschini, Letta jr e – sopra tutti – Francesco Rutelli. Eccolo di nuovo qui, l’ex sindaco, alleato naturale di Veltroni e al contempo suo logico contendente: pronto a negoziare la grande alleanza debenedettiana ma non senza un pensierino sull’eventualità di strozzare la marcia da Roma del pericoloso amico. Il ferro tagliente nelle mani è giunto ai due leader, e altro arriverà, direttamente dal popolo sovrano. Sull’uso che ne faranno gravano numerose variabili. Una di queste è che, per fare un nuovo partito, conviene averne già uno sotto controllo. Proprio il dislivello che Veltroni è chiamato a colmare.
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