
La gran luce di Gulu
L’ultima vittima dell’epidemia di Ebola all’ospedale St. Mary’s Lacor di Gulu, Uganda settentrionale, è stato Matthew Lukwiya, 43 anni, direttore sanitario della struttura. Si è spento all’una di notte del 5 dicembre scorso. Qualche giorno prima, quando già aveva compreso di essere stato toccato dal morbo, un’infermiera l’aveva sentito mormorare: “O Dio, sento che morirò in servizio: fa’ che io sia l’ultima vittima”. Da quella notte non si sono più registrati decessi nell’ospedale fondato dai missionari comboniani e sviluppato per quasi quarant’anni, fino a diventare famoso dentro e fuori dall’Africa, dai coniugi Piero e Lucille Corti, lui medico lombardo fratello dello scrittore Eugenio, lei dottoressa canadese del Quebec. Se l’insorgenza dell’epidemia è stata accertata molto prima che nei casi passati, permettendo perciò di salvare molte potenziali vittime, se la mortalità del morbo è stata inferiore della metà a quella registrata nelle epidemie precedenti, se nel distretto di Gulu Ebola è stato apparentemente tamponato, moltissimi meriti spettano a Matthew Lukwiya e alla quarantina di volontari del personale sanitario del Lacor Hospital che hanno messo in gioco la loro vita (e una dozzina di loro l’ha perduta) per frenare la pestilenza e per garantire assistenza ai malati.
Contro Ebola solo personale volontario
Lukwiya è l’uomo che per primo aveva lanciato al mondo l’allarme del nuovo focolaio ugandese di Ebola, ma non subito era stato creduto. Richiamato dalle ferie per svolgere accertamenti su alcune morti sospette presso l’ospedale di Gulu, si era subito convinto che si trattasse del terribile virus che dal 1975 periodicamente semina morte e sofferenza con improvvisi scoppi epidemici nelle più diverse regioni dell’Africa equatoriale. L’8 ottobre aveva avvertito le autorità e preso i primi provvedimenti per evitare il diffondersi del contagio, ma solo il giorno 14 la radio e la televisione nazionale avevano dato, per bocca del ministro della Sanità, l’annuncio ufficiale dell’epidemia. Nel frattempo il dott. Lukwiya aveva riunito tutto il personale del Lacor Hospital (circa 600 persone fra medici, infermieri, studenti e studentesse della scuola infermieri e portantini) parlando loro più o meno così: “Siamo di fronte ad un’epidemia di Ebola. Se non ci attiviamo per contenerla, sarà una strage. Il virus è altamente contagioso, il contatto coi malati pericoloso, ma se si seguono scrupolosamente tutte le precauzioni, si può evitare il contagio. Chi non se la sente di partecipare a questo servizio, è autorizzato ad astenersi. Ma sconsiglio vivamente di lasciare il compound dell’ospedale e tornare ai villaggi: siete già stati tutti esposti al virus, se qualcuno fra voi si è contagiato, rischiate di sterminare le vostre famiglie”. Dopo questa realistica esortazione, una quarantina di unità di personale di varia estrazione (dai portantini di 16 anni ai medici quarantenni passando per infermieri e infermiere, professionali o studenti) si erano offerti volontari per seguire Lukwiya nella temeraria opera di contenimento. Gli altri avevano accettato di restare negli alloggi del personale all’interno del recinto ospedaliero e di accudire i malati dei pochi reparti rimasti aperti dopo lo scoppio dell’epidemia.
Modi di azione di un virus spietato
I numeri di Ebola fanno spavento: nel corso dell’epidemia che colpì la città di Kikwit nell’ex Zaire nel ’95 l’80 per cento del personale sanitario del locale ospedale si contagiò (comprese sette suore bergamasche) e la mortalità complessiva fu dell’81 per cento (su 315 casi). I sintomi di Ebola sono febbre alta, vomito, dolori allo stomaco e diarrea all’inizio, sangue da tutti gli orifizi del corpo, insufficienza respiratoria e delirio nella fase finale che precede la morte. Non esistono cure capaci di produrre la guarigione: l’intervento terapeutico consiste nel ricostituire i fluidi e gli elettroliti perduti dal malato con delle flebo e, in alcuni casi, in trasfusioni di plasma. L’assistenza ai malati è molto pesante per il personale, ed estremamente pericolosa in termini di esposizione al contagio: Ebola si trasmette per il semplice contatto con le deiezioni e secrezioni corporali delle persone infette, anche quando sono disperse nell’aria in particelle piccolissime (si parla allora di trasmissione attraverso aerosol). Cosa ha spinto un gruppo di persone normali, quasi tutti africani di vario livello culturale e di censo modesto, ad assumersi un rischio così elevato? Il primo a stupirsi dell’eroismo dei suoi sottoposti era proprio il dott. Lukwiya, che al funerale di Grace, una delle sue infermiere decedute a causa dell’epidemia, aveva così parlato: “Davanti a noi si sta dispiegando un grande mistero di luce. Dal nostro personale che è morto a causa di Ebola mai abbiamo udito una parola di risentimento, rabbia, pentimento per aver accettato di lavorare in situazioni così rischiose. Solo ringraziamento e incoraggiamento a perseverare come ha fatto Danielle (la seconda infermiera deceduta, studentessa – ndr.) o lode a Dio come Grace. Il martirio e la santità del nostro personale sono un dono che il presente e il futuro dovranno valorizzare. Sono tutti giovani, al termine dei loro studi, con davanti sogni e progetti per l’avvenire, eppure si prodigano rischiando la vita e sacrificandola per evitare una grossa catastrofe”.
Chi era Matthew Lukwiya, l’eroe di Gulu
Matthew Lukwiya, l’uomo che tesseva l’elogio dei suoi quaranta eroi pescati fra la gente comune, era tuttavia una persona fuori dal comune. Era stato il migliore studente ugandese agli esami di maturità nel 1974, e dopo la laurea in medicina aveva accumulato tre “master” e un diploma in amministrazione ospedaliera. Al termine del suo corso in malattie tropicali a Londra gli era stato chiesto di restare come docente, ma lui aveva preferito tornare al Lacor di Gulu, l’ospedale della regione dove era nato e dove aveva fatto il suo tirocinio. Un ospedale molto famoso, ma collocato in una regione estremamente povera e insicura a causa di una guerriglia endemica. Nel 1989 il dott. Matthew, già direttore sanitario, si era offerto come ostaggio ai guerriglieri dell’Lra al posto delle infermiere e dello staff medico che essi volevano sequestrare. Era stato liberato dopo una settimana. Così parlava di lui la madre due settimane prima che Ebola se lo portasse via: “Dopo la maturità mi disse che voleva diventare dottore per poter aiutare la sua gente. E siccome ha scelto di aiutare la gente, ora la deve aiutare come se avesse avuto una chiamata, una vocazione. Molte persone, anche fra i nostri parenti, gli dicono che è uno stupido, perché potrebbe aprire una clinica, guadagnare soldi a palate e diventare ricco. Lui risponde che aiutare i malati è una cosa che supera ogni ricchezza di questo mondo. Tutte le ricchezze non durano per sempre, solo il Signore è il padrone della vita. Se tu sei ricco e pieno delle cose di questo mondo ti dimentichi delle cose che valgono davvero e della vita degli altri. Diventi superbo e disprezzi il povero. Combattere per la vita futura è quello che serve, e ci aiuta a vivere con gioia la vita di quaggiù. Tutto bisogna fare per il Signore, che ha detto che ogni cosa che avete fatto al più piccolo l’avete fatta a me”.
Cattolici e anglicani uniti nell’offerta della vita
Matthew era un cristiano anglicano, come i suoi genitori, e tutto il personale del Lacor è composto da un assortimento di cattolici e anglicani, che nel nord Uganda non sono mai andati molto d’accordo, ma che nell’ospedale di Gulu hanno testimoniato l’ecumenismo non delle parole ma della Grazia e delle opere. Era cattolica Grace, l’infermiera deceduta il 18 novembre. Di lei si legge nel diario di fratel Croce, un religioso comboniano che ha tenuto il diario dell’epidemia: “Questa notte all’una e mezza è morta la nostra infermiera Grace Akullo, 27 anni. E’ morta circondata da tutte le infermiere e da suor Dorina. Il dott. Matthew l’ha assistita tutto il giorno e l’ha lasciata mezz’ora prima di morire. Diceva che era preoccupata e dispiaciuta per i suoi due figli gemelli di quattro anni. Lui le disse che era per lei giunta l’ora della verità, Dio che la chiamava a sé non avrebbe abbandonato i suoi figli ed anche l’ospedale si impegnava ad aiutarli. Sia suor Dorina che Matthew erano in lacrime ed era Grace che li incoraggiava. Matthew dice che non ha mai visto morire una giovane donna con tanto coraggio, fede ed abbandono nelle mani del Signore, cosciente fino all’ultimo respiro. E’ morta cantando inni di lode e di abbandono nel Signore. Tra le altre canzoni cantava quella in inglese che dice ‘Mi mandò a predicare la buona novella ai poveri. A dire ai prigionieri che non ci sono più prigioni, e a dire a tutti che il Regno di Dio è arrivato’. Durante la Messa abbiamo continuato a cantare i canti che lei cantava prima di morire: tutti inni di gioia. E’ andata incontro al Signore senza paura, abbandonata al suo volere”. Oggi l’epidemia di Ebola –di cui si segnalano due focolai ancora attivi nell’Uganda meridionale- nel distretto di Gulu sembra tamponata: i casi registrati sono stati 376, i decessi 160, cioè poco più del 40 per cento dei casi, ovvero un dato che è la metà del tasso di mortalità abituale di Ebola. Se ciò sia dipeso dal particolare ceppo del virus o dalla scrupolosa assistenza di cui sono stati oggetto i malati, non si può ancora dire. Quel che è certo, e che ogni cronista onesto può confermare, è che gli uomini e le donne del Lacor Hospital hanno offerto consapevolmente la loro vita perché toccati, in vari modi, dall’annuncio cristiano. Ha commentato un missionario comboniano in Uganda ben conosciuto come padre Pietro Tiboni: “Di fronte a questa situazione drammatica e a questi miracoli di Grazia, riprendo sempre con più ardore la preghiera di consacrazione alla Madonna, che nella sua versione originale diceva: ‘Attraverso di te, perciò, noi consacriamo tutto noi stessi, tutte le sofferenze che tuo Figlio scegli per noi, e la nostra stessa vita, affinché tu diventi Madre della vita’”. Parole che a Gulu sono diventate offerta sacrificale.
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