
La frenesia vacanziera dei moderni che hanno paura di se stessi
Siamo in tempi di vacanze e allora riflettiamoci su. Quando guardo allo stile del far vacanza oggi dominante, provo riluttanza a confessare di averne un’idea opposta, perché verrei subito definito come un nostalgico di passati vecchiumi. Invece ho sempre pensato la vacanza come una rottura con l’attività quotidiana, un periodo durante il quale risiedere nello stesso posto e praticare attività rigeneratrici del corpo e della mente, attività fisiche e letture gratuite, concedendosi di pensare senza fini professionali, e di conversare al di fuori della scaletta di un workshop.
A guardarsi intorno sembra invece che non sia possibile far vacanza se non tirandosi dietro tutto ciò che ci ha stancato nel corso dell’anno, incluse anche le lunghe permanenze in automobile e gli imbottigliamenti. Fino a non molti anni fa era plausibile affittare un appartamento per l’intero periodo delle vacanze. Ora si affitta al massimo dal sabato al sabato successivo e spesso soltanto per pochi giorni, e chi manifesta l’intenzione di risiedere nello stesso posto per più di sette giorni viene guardato come un prezioso ma bizzarro animale in via di estinzione. Le vacanze sono interminabili code di vetture piene di famiglie sudate, che schizzano come schegge da un panorama a un negozio, da un bagno a un ristorante, con contorno di bambini stressati. Sempre “on the road”, come se fermarsi più di qualche giorno in un posto fosse una vergogna. Una persona, cui dissi che andavo in vacanza sulle Dolomiti, commentò: «Ah, ma io le ho già viste tutte». Cioè le aveva percorse in automobile e quindi archiviate. Non parliamo poi dell’ossessione delle vacanze “culturali”, come se leggere un romanzo all’ombra di un albero non fosse un’attività culturale, e un’escursione a piedi non possa essere l’occasione per insegnare a un bambino una quantità di fatti naturali e di comportamenti sociali.
Sono convinto che un rallentamento del ritmo frenetico delle vacanze non porterebbe soltanto vantaggi economici. Forse questo modo di far vacanza è una delle tante manifestazioni della crescente povertà spirituale delle nostre società, in cui si vive nel terrore di doversi fermare a riflettere e a pensare a se stessi. Viene in mente la riflessione di Pascal secondo cui la tendenza al “divertissement” e alla distrazione continua esprime il rifiuto di pensare al proprio destino e si manifesta nell’incapacità di stare tranquillo in una stanza vuota (ma anche su un prato o in un qualsiasi luogo poco affollato). Secondo Pascal questi atteggiamenti derivano dalla paura di pensare alla morte, contro cui la distrazione continua agisce come un anestetico. Ai tempi nostri ciò si realizza con l’attività lavorativa frenetica e, durante le vacanze, comportandosi in un modo che esse le assomiglino quanto più possibile. Non mi sembra però che questa sia una condizione naturale dell’uomo, bensì una manifestazione di malessere sociale e spirituale. Penso piuttosto, con Spinoza, che «un uomo libero non pensa a nessuna cosa meno che alla morte e la sua saggezza è una meditazione non sulla morte ma sulla vita». Meditare sulla vita non è né frenesia di dimenticare né culto della solitudine, perché – dice ancora Spinoza – «l’uomo diretto dalla ragione è più libero nella Città in cui vive secondo il decreto comune che non nella solitudine in cui obbedisce soltanto a se stesso». E si può piombare nella più atroce solitudine proprio inseguendo quelle situazioni che sembrano escluderla: per esempio correndo freneticamente da un luogo all’altro e non essendo mai in nessun luogo.
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