
La Chiesa resta la più bella tra le “invenzioni” di Dio

L’altra sera, al termine della messa pre-festiva della solennità di Maria Madre di Dio, in tutte le chiese del mondo è stato intonato il Te Deum. È un inno di struggente bellezza, roba da farti accapponare la pelle tanto è maestoso e semplice allo stesso tempo, altro che concertoni di capodanno ad alto tasso di inquinamento acustico. Il Te Deum dice della signoria e della gloria di Dio, dell’opera salvifica di Cristo racchiusa in un compendio del Credo e dell’umana fragilità che invoca salvezza, aiuto e pietà. Esprime una verità troppo spesso dimenticata (e che spiega, di contro, il crescente ricorso a maghi, fattucchieri e oroscopi, in tempi ordinari, come anche il terrore globale che ha attanagliato il mondo intero in questo tempo straordinario della pandemia, inclusa una buona fetta di credenti): che è Dio il Signore della storia, non l’uomo né tanto meno il caso. E che noi uomini siamo ben poca cosa senza il suo aiuto. Ne fossimo davvero coscienti, non staremmo ogni due per tre a scandalizzarci dell’ennesimo scandalo vaticano con gli immancabili annessi e connessi di trame occulte, complotti all’ombra del cupolone, lotte intestine e monnezzame vario (tra l’altro, dovrebbe far riflettere questo stracciarsi di vesti – in primis dentro la Chiesa – ogni volta che ci sono di mezzo i soldi, mentre su questioni come l’aborto che ogni anno, incluso quello appena concluso, uccide decine di milioni di esseri umani si registra un silenzio pressoché assordante, come puntualmente è accaduto anche di recente in Argentina).
In un’ottica di sano realismo cristiano, per definizione lontano anni luce tanto da un lassismo senza freni quanto da un moralismo asfissiante, continuo a tenermi la Chiesa così com’è, santa e peccatrice, con buona pace degli accigliati a un tanto al chilo che stanno sempre col ditino puntato. E quando dico la Chiesa così com’è ci metto pure papa Borgia, ovvio. La cui condotta è stata sicuramente deplorevole sul piano umano, ma che dal punto di vista (l’unico che conti) del mandato petrino è e resta un grande pontefice checché ne dica la storiografia mainstream. Poi certo, se un papa è anche virtuoso tanto meglio (e solo en passant ricordo che nel XX secolo si sono avuti ben quattro papi santi), ma in caso contrario pazienza; è preferibile cento volte un papa di non specchiata moralità ma che difende la dottrina piuttosto che un papa moralmente integerrimo ma che non sappia (o, peggio, che non voglia) “confermare i fratelli nella fede”. La coerenza la lascio volentieri ai duri e puri. San Paolo ha detto a chiare note che il «vangelo non è modellato sull’uomo» (Gal 1,11); affermazione questa che se ovviamente non autorizza nessuno a vivere come se peccare o non peccare fosse indifferente, allo stesso tempo sottolinea la distanza siderale tra il cristianesimo e ogni prospettiva volontaristica (e di volontariato, anche).
D’altra parte, se Cristo ha voluto fondare la Chiesa su Pietro, che lo rinnegò pubblicamente, e Paolo, che i cristiani li perseguitava in nome del giudaismo, vorrà pur dire qualcosa, o no? Due persone umanamente imperfette e non esemplari, che però la grazia ha reso perfette al punto che al dunque hanno dato il sangue per Cristo. Saremo pure brutti sporchi e cattivi, ma nonostante tutti i limiti, le bassezze e i peccati dei suoi membri, la Chiesa resta la più bella tra le “invenzioni” di Dio. E la cui storia ha di gran lunga più luci che ombre, con una presenza senza la quale il mondo sarebbe un posto ben peggiore di quello che è. E non è certo un caso se il progressivo imbarbarimento della società occidentale la cui nascita ha coinciso con l’avvento della civiltà, sia direttamente proporzionale alla crisi in cui versa la Chiesa e più in generale il cattolicesimo.
Fa male, inutile che ce lo nascondiamo, assistere – ed è oltremodo paradossale che ciò accada in un momento storico in cui l’irrilevanza del cristianesimo nella vita pubblica, sociale e politica, ha forse raggiunto un punto di non ritorno – assistere ad una Chiesa che sembra essere più attenta alla salvezza dell’economia che non all’economia della salvezza, e le cui priorità sembrano avere hanno un connotato eminentemente, se non unicamente, politico. Priorità che in quanto tali poco o nulla hanno a che vedere con il Vangelo (e questo nonostante la cortina fumogena di una narrativa secondo cui l’attuale corso ecclesiale coinciderebbe con il ritorno alla centralità dell’annuncio evangelico). Per tacere di letture stravaganti oggi in circolazione rispetto a temi che pure appartengono al proprium della fede, come quello, abusatissimo, della misericordia. Tema senza dubbio centrale, e che anzi rappresenta il cuore del Vangelo; ma che declinato nel modo in cui viene sovente declinato nella predicazione, nell’omiletica e in generale nel discorso pubblico ecclesiale rischia di essere parziale e fuorviante. Cristo non è venuto a predicare l’amore di Dio e basta. Cristo è venuto a salvare gli uomini, predicando sì l’amore di Dio ma ai peccatori, cioè ad ogni uomo che ha camminato, che cammina e che camminerà sulla faccia della terra dal momento, come dice san Paolo, che «tutti hanno peccato». Con un cristianesimo di sola caritas, che non sia cioè una caritas in veritate, forse (e dico forse) ci ritroviamo magari chiese e piazze meno vuote per un rinnovato feeling tra il mondo e la Chiesa, ma di gente che non ha nessuna intenzione di cambiare vita perché tanto Dio è misericordioso (che poi, se è per questo anche Allah è misericordioso). Sicuri sicuri che sia questo il “vangelo della misericordia”?
Buona parte dei discorsi che si sentono in ambito ecclesiale ha ormai una dimensione quasi del tutto orizzontale. Come se le cose di quaggiù fossero più importanti di quelle di lassù. Prevengo l’obiezione: ma occuparsi delle cose di lassù non esclude, anzi, implica occuparsi anche delle cose di quaggiù, dal momento che Dio si è incarnato e la Chiesa cammina nella storia. Vero, ci mancherebbe. Ma nel giusto ordine. Prima il cielo, poi la terra. Altrimenti succede, e purtroppo succede sempre più spesso, che quando senti certi vescovi o certi parroci, e non sai che a parlare è un vescovo o un parroco, potresti tranquillamente pensare di stare ascoltando di volta in volta, chessò, un teorico dello sviluppo sostenibile, un esperto di coaching, un sindacalista, un’attivista dei diritti umani o uno dei tanti testimonial del nulla cosmico in giro per il mondo.
Mai come ora risuona l’esortazione del compianto card. Caffarra: «È d’urgenza drammatica che la Chiesa ponga fine al suo silenzio circa il Soprannaturale». Potrebbe sembrare scontato che la Chiesa parli del Soprannaturale. In realtà non lo è affatto. O meglio, non lo è più. In (relativamente) breve tempo si è passati – in parte per reazione ma per lo più per una sorta di “mondanizzazione” voluta e cercata da certi ambienti sedicenti cattolici per darsi una patina di modernità – da un eccesso all’altro, da una predicazione forse troppo moralistica dell’aldilà (della serie: se ti comporti bene vai in paradiso, se ti comporti male vai all’inferno) che più che incutere il timor di Dio incuteva il terrore di Dio (che in ottica cattolica col primo non c’azzecca nulla), ad una predicazione dove tutto è stato appiattito e dove lo spartiacque tra la salvezza e la dannazione (ammesso che quest’ultima sia ancora contemplata) è il maggiore o minore grado di “bene sociale” che uno alla fine avrà prodotto.
Fede e opere, lo sappiamo, sono due facce di un’unica medaglia. Non c’è l’una senza le altre. Ma, di nuovo, nel giusto ordine. Prima la fede, poi le opere. Troppo spesso i fautori di un cristianesimo declinato al sociale o, peggio, strumento di riscatto dall’oppressione e dall’ingiustizia (si pensi alle varie teologie della liberazione per non dire degli sfaceli arrecati da una lettura fortemente politicizzata della famosa “opzione per i poveri”) dimenticano o fanno finta di non sapere che proprio il cristianesimo si fonda sulla più ingiusta delle ingiustizie, quella della croce: vorrà dire qualcosa? Chiaro che questo non significa starsene con le mani in mano o girare la testa dall’altra parte di fronte alle ingiustizie; né tanto meno prediligere certe forme di spiritualità “disincarnate” che hanno un forte retrogusto di aria fritta (la fede senza le opere è morta in se stessa, dice san Giacomo). Ma, appunto, un conto sono le opere frutto della fede, altro conto sono le opere che nascono più dallo scandalo della croce che da una carità genuina, e che in quanto tali di cristiano hanno solo il nome. L’attitudine propria del cristiano, è bene ribadirlo, non è quella di recriminare né di ergersi a giudice della storia, ma di convertirsi. È insomma importante rimettere le cose nella giusta scala di valori e priorità, dove prima viene il Soprannaturale poi tutto il resto. La Chiesa esiste per annunciare il Vangelo (quello vero) e santificare (non sanificare) gli uomini. A che pro scimmiottare il mondo inseguendolo nel suo sforzo umanitario, per fare ciò che tra l’altro il mondo ha dato prova di saper fare molto meglio? Di una Chiesa che non “sala”, il mondo, proprio quel mondo che tanto sembra avere a cuore, alla fine non saprà cosa farsene (e sta già accadendo).
Il Te Deum si chiude dicendo «Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno». Prima ancora che riporre improbabili attese simil-messianiche in un vaccino che bene che vada potrà allungarci la vita corporale di qualche anno (vita, vale la pena ribadirlo, in ogni caso destinata a terminare prima o poi per il 100% degli attuali e futuri abitanti del pianeta, fatta eccezione per coloro i quali la seconda venuta di Cristo troverà ancora vivi), il Te Deum viene a ricordarci che i cristiani ripongono la loro speranza in Cristo, ciò che tra l’altro rappresenta anche la miglior cura contro ogni eccessiva preoccupazione circa i destini della Chiesa. La Chiesa è di Cristo, non nostra; è Lui l’unico e vero capo della Chiesa, e se nei suoi disegni la Chiesa deve passare per questa o altre crisi vuol dire che c’è un motivo.
Ma il Te Deum dice anche che l’”ancoraggio” a Cristo scaccia ogni confusione. L’esatto contrario della tanta, troppa confusione che c’è oggi nella Chiesa. Si prendano, tanto per fare un esempio d’attualità, gli echi che arrivano dalla Germania dove è in dirittura d’arrivo l’assemblea organizzata nel 2019 dalla Conferenza episcopale tedesca e dal Comitato centrale dei cattolici tedeschi. Si parla sempre più insistentemente della volontà di aprire alle donne il sacramento dell’Ordine, inizialmente ordinando diaconesse, e della benedizione alle unioni omosessuali. Decisioni che, se saranno confermate, avranno conseguenze dagli esiti imprevedibili per tutta la Chiesa. Ufficialmente il motivo di queste aperture, che in Germania (e non solo) sono vecchi cavalli di battaglia dell’ala più progressista dell’episcopato fin dagli anni ’70 del secolo scorso, è la volontà di ristabilire un clima di fiducia tra la Chiesa e il popolo dei fedeli in un clima contrassegnato da una secolarizzazione galoppante. Non sappiamo come andrà a finire.
Sappiamo però cosa disse in circostanze simili (nel senso di un clima segnato anch’esso da forti spinte in senso aperturista) Giovanni Paolo II incontrando i giovani olandesi durante la visita apostolica in Olanda nel maggio 1985. Quello che segue è un estratto del suo discorso, che stante il dibattito in corso in Germania (e altrove) penso valga la pena riportarlo per intero: «Mi avete fatto sapere che voi considerate spesso la Chiesa come un’istituzione che non fa che promulgare regolamenti e leggi. Voi pensate che essa mette molti parapetti nei diversi campi: la sessualità, la struttura ecclesiastica, il posto della donna in seno alla Chiesa. E la conclusione a cui giungete è che esiste un profondo iato tra la gioia che promana dalla parola di Cristo e il senso di oppressione che suscita in voi la rigidità della Chiesa. Cari amici e amiche, consentitemi di essere molto franco con voi. Io so che parlate in perfetta buona fede. Ma siete proprio sicuri che l’idea che vi fate di Cristo corrisponda pienamente alla realtà della sua persona? Il Vangelo, in verità, ci presenta un Cristo molto esigente, che invita alla radicale conversione del cuore (cf. Mc 1, 5), al distacco dai beni della terra (cf. Mt 6, 19‐21), al perdono delle offese (cf. Mt 6, 14‐15), all’amore per i nemici (cf. Mt 5, 44), alla sopportazione paziente dei soprusi (cf. Mt 5, 39-40), e perfino al sacrificio della propria vita per amore del prossimo (cf. Gv 15, 13). In particolare, per quanto concerne la sfera sessuale, è nota la ferma posizione da lui presa in difesa dell’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19, 3-9) e la condanna pronunciata anche nei confronti del semplice adulterio del cuore (cf. Mt 5, 27-28). E come non restare impressionati di fronte al precetto di “cavarsi l’occhio” o di “tagliarsi la mano” nel caso che tali membra siano occasione di “scandalo” (cf. Mt 5, 29-30)? Avendo questi precisi riferimenti evangelici, è realistico immaginare un Cristo “permissivo” nel campo della vita matrimoniale, in fatto di aborto, di rapporti sessuali prematrimoniali, extra-matrimoniali o omosessuali? Certo, permissiva non è stata la comunità cristiana primitiva, ammaestrata da coloro che avevano conosciuto personalmente il Cristo. Basti qui rimandare ai numerosi passi delle lettere paoline che toccano questa materia (cf. Rm 1, 26 ss; 1 Cor 6, 9; Gal 5, 19). Le parole dell’apostolo non mancano certo di chiarezza e di rigore. E sono parole ispirate dall’alto. Esse restano normative per la Chiesa di ogni tempo. Alla luce del Vangelo essa insegna che ciascun uomo ha diritto al rispetto e all’amore. L’uomo conta! Nel suo insegnamento la Chiesa non pronuncia mai un giudizio sulle persone concrete. Ma a livello dei principi, essa deve distinguere il bene dal male. Il permissivismo non rende gli uomini felici. Ugualmente la società dei consumi non porta la gioia del cuore. L’essere umano realizza se stesso solo nella misura in cui sa accettare le esigenze che gli provengono dalla sua dignità di essere creato a “immagine e somiglianza di Dio” (Gen 1, 27). Pertanto, se oggi la Chiesa dice delle cose che non piacciono, è perché essa sente l’obbligo di farlo. Essa lo fa per dovere di lealtà. Sarebbe in realtà molto più facile tenersi sulle generalità. Ma talvolta essa sente di dovere, in armonia con il Vangelo di Gesù Cristo, mantenere gli ideali nella loro massima apertura, anche a rischio di dover sfidare le opinioni correnti».
L’importanza, oltreché la straordinaria bellezza delle parole pronunciate da Wojtyla in quell’occasione, risiede non tanto e non solo in ciò che il papa disse, quanto piuttosto nella scelta di una modalità di dialogo con i giovani (e non solo) distante anni luce da un certo modo di intendere oggi il dialogo. Quel viaggio di Giovanni Paolo II in Olanda non fu affatto facile, con contestazioni e polemiche molto dure anche da parte degli stessi giovani, aventi per oggetto in particolare la morale sessuale. Ma proprio perché li amava profondamente, il santo papa polacco scelse di instaurare con essi un dialogo, appunto, serio, senza sconti, ed anzi rifuggendo la “tentazione di Aronne”, la tentazione cioè di giocare al ribasso dando al popolo ciò che il popolo chiede (che invece è esattamente quanto sembra vogliano fare i vescovi in Germania e più in generale in ampi settori ecclesiali). Non solo dunque il papa non si sottrasse, ma se possibile rilanciò. Con un discorso che resterà una pietra miliare nel suo lunghissimo pontificato, e che riletto ora dà la misura di come, a distanza di pochi decenni, il modo di parlare della Chiesa sia profondamente cambiato nella misura in cui oggi anziché elevare le persone alla statura del Vangelo si tende ad abbassare l’asticella del Vangelo alla statura della fede delle persone. Con tutto ciò che ne consegue. Il che ci riporta alla frase che chiude il Te Deum: è ancora Cristo la speranza della Chiesa?
Foto Ansa
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