La Bindi risforma la sanità

Di Borsani Carlo
07 Luglio 1999
L’ospite/Borsani

La forte opposizione della Regione Lombardia a quella che possiamo chiamare riforma-ter o “riforma Bindi” è stata chiaramente espressa nelle sedi istituzionali quali la Conferenza Stato-Regioni, la Conferenza Unificata e in molteplici appelli al Parlamento, e si concretizzerà in un ricorso presso la Consulta perché venga respinta come incostituzionale in quanto viola l’autonomia regionale sancita dalla Carta. Ci obbliga a questo la pervicacia del Ministro Bindi che ha ascoltato tutti, Parlamento, Regioni, Comuni, sindacati medici, sindacati del comparto, degli infermieri chiedendo loro pareri e promettendo l’accoglimento di numerosi emendamenti, ma ha poi fatto il contrario ed ha imposto al Consiglio dei ministri un testo che neppure a loro era stato dato in lettura preventiva. Ritengo gravissimo che un Governo possa ritenere di imporre un totale mutamento organizzativo in un settore vitale quale quello sanitario senza rispettare i diversi modelli organizzativi delle Regioni e senza salvaguardare i processi di riforma già in atto, in conseguenza di leggi regionali di riordino, regolarmente vistate dal Governo stesso. Il decreto, infatti, sembra studiato apposta per impedire la riforma in corso nella Regione Lombardia, i cui primi esiti vengono accolti in modo favorevole dai cittadini e stanno portando i primi importanti riscontri sia sotto il profilo della qualità e dell’efficacia delle cure, sia dal punto di vista del risanamento dei bilanci. Quella riforma del servizio sanitario lombardo, che il ministro Guzzanti aveva accolto con entusiasmo, proponendola a modello, verrebbe oggi cassata dal suo successore con questo decreto. Un decreto che è stato fortemente criticato da numerosi componenti del Governo stesso e che comporterà un ulteriore ingiustificato aggravio di spesa – basti ricordare gli oneri derivanti dalla soppressione dei rapporti di lavoro a tempo definito o quelli conseguenti alle previsioni restrittive sui fondi integrativi che negano la possibilità di ricorrere a strutture autorizzate. I nostri ricorsi si basano su eccezioni di incostituzionalità e di illegittimità, in quanto l’autonomia regionale, sancita dall’art. 117 della Costituzione e dal D.Lgs. 50292, viene drasticamente ridimensionata dall’impostazione statalista e centralista del Ministero. Secondo il parere delle Regioni reso in sede di Conferenza Unificata, spetta al livello nazionale definire, di norma in seno alla Conferenza Stato-Regioni, gli indirizzi e le linee guida; ma spetta alle Regioni tradurre, coerentemente ma in piena autonomia, gli indirizzi in atti programmatori, amministrativi ed in scelte organizzative. Con i decreti delegati viene riproposto un servizio sanitario incentrato quasi esclusivamente sulle Aziende Usl, sulla identificazione tra il soggetto garante della salute dei propri cittadini ed acquirente delle prestazioni ed il soggetto erogatoreproduttore delle stesse. Viene infatti negata, interpretando in modo improprio la legge delega, la possibilità alle Regioni di costituire aziende ospedaliere di rilievo regionale, prevedendole esclusivamente di rilievo interregionale o nazionale e soggette alla decisione del Consiglio dei Ministri; in tal modo si impedisce la separazione tra il soggetto acquirente (le ASL) e il soggetto produttore (le aziende ospedaliere) e, cosa ben più grave, una reale competizione “regolata” tra tutti i soggetti erogatori, pubblici e privati, foriera di sicuri benefici e vantaggi per il cittadino, nonché presupposto per un reale esercizio del principio della libera scelta. È infatti chiaro che l’ASL, avendo presidi ospedalieri di sua proprietà e diretta gestione, non potrà che favorirli nella stesura degli accordi contrattuali previsti dalla norma. L’impostazione del decreto delegato tende inoltre a vanificare la parità pubblico-privato attraverso l’introduzione di una procedura di accreditamento basata sulla previsione di un fabbisogno regionale di prestazioni e sulla capacità produttiva massima della singola struttura che di fatto garantirà quelle pubbliche e renderà solo integrativo il ruolo del privato, o di pochi privati privilegiati. Infine come non rilevare che le norme sulla incompatibilità e sull’esclusività del rapporto di lavoro avranno l’effetto devastante di una fuga generalizzata dei migliori professionisti dalle strutture pubbliche, realizzando così esattamente l’obiettivo contrario a quello dichiarato; anche in questo caso si è persa una grande occasione per spingere la classe medica, che svolge un ruolo fondamentale, ad un coinvolgimento positivo nelle organizzazioni aziendali di appartenenza attraverso meccanismi di incentivazione e responsabilizzazione attiva. In definitiva, si rischia un ritorno all’antico, ad un sistema abbondantemente fallito, un peggioramento dei conti del sistema sanitario ed un accentramento delle decisioni tanto più grave ed ingiustificato in un contesto europeo e nazionale che si avvia al federalismo fiscale, in una logica di reale decentramento dei poteri.

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