La balcanizzazione del conflitto nel Tigrai

Di Rodolfo Casadei
31 Luglio 2021
Perché i tigrini, inferiori per numero e per mezzi, si sono lanciati in offensive destinate a prolungare una guerra che ha già causato decine di migliaia di morti
Tigrai, rifugiati in Sudan
epa08858048 Ethiopian refugees from Tigray region at the Um Rakuba refugee camp, the same camp that hosted Ethiopian refugees during the famine in the 1980s, some 80 kilometers from the Ethiopian-Sudan border in Sudan, 30 November 2020 (issued 02 December 2020). According to World Food Programme on 02 December, about 12,000 Ethiopian refugees from Tigray are accomodated in the Um Rakuba camp as over 40,000 Ethiopian refugees fleed to Sudan since the start of fights in the northern Tigray region of Ethiopia. Ethiopia's military intervention comes after Tigray People's Liberation Front (TPLF) forces allegedly attacked an army base on 03 November 2020 sparking weeks of unrest. According to reports on 02 December 2020, UN reached an agreement with Ethiopian government to provide aid for the Tigray region of Ethiopia. EPA/ALA KHEIR

Tigrai, rifugiati in Sudan

Più ancora della riconquista della capitale regionale Macallè, evacuata dalle truppe federali e dalle milizie filo-governative alla fine di giugno, a stupire gli osservatori è l’offensiva su due fronti che le Forze di difesa del Tigray (Fdt), braccio armato del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt) e del governo regionale esautorato da Addis Abeba l’anno scorso, sta conducendo dall’inizio di luglio in due regioni confinanti, l’Afar e l’Amhara. Perché i tigrini, inferiori per numero e per mezzi alla coalizione dei loro avversari (truppe dell’esercito federale etiopico, forze paramilitari e milizie etniche di una mezza dozzina di regioni etiopiche, un corpo di spedizione delle Forze di difesa eritree), anziché consolidare la difesa del terreno riconquistato si sono lanciati in offensive destinate a prolungare una guerra che ha già causato decine di migliaia di morti fra il novembre 2020 ed oggi (non esiste un bilancio preciso, le stime oscillano fra i 10 mila e i 50 mila morti) e ad alimentare un sentimento anti-tigrino presso le  etnie che formano il complesso mosaico dell’Etiopia?

Soggetti oltranzisti

Per capire il senso di quello che sta accadendo occorre tenere presente che ad animare il conflitto sono due soggetti politici oltranzisti: il governo del primo ministro Abiy Ahmed considera il Fplt un gruppo terroristico col quale nessun negoziato è possibile, e la ritirata delle forze armate e dell’amministrazione civile dal Tigray, insieme alla dichiarazione di cessate il fuoco unilaterale, sono soltanto decisioni condizionate dagli insuccessi militari sul campo di battaglia; il Fplt persegue l’obiettivo strategico delle dimissioni di Abiy Ahmed, che accusa di tradimento per avere lasciato entrare in territorio etiopico truppe dell’Eritrea che si sono macchiate di crimini di guerra e di genocidio contro i tigrini; e intende sostituire il suo esecutivo con uno di transizione.

Armistizio respinto

Quando il governo Abiy ha offerto l’armistizio che avrebbe incluso la fine del blocco attorno al Tigrai e quindi la possibilità di far transitare gli aiuti umanitari e di riprendere le attività economiche, soprattutto quelle legate all’agricoltura, ha contestualmente chiarito che «questa misura presa dal Governo federale non è mirata in alcun modo a garantire impunità, poiché ciò danneggerebbe la causa della giustizia e di una pace duratura. Dovrebbe essere molto chiaro che il Governo garantirà che i responsabili di crimini ne rendano conto, chiunque sia il responsabile delle atrocità».

Evidentemente il Fplt non poteva non respingere un armistizio a queste condizioni. Il governo ha inoltre chiarito che nessun rimpasto governativo sarebbe stato possibile, in quanto «lo svolgimento coronato da successo delle seste elezioni nazionali In Etiopia ha chiaramente dimostrato che il popolo etiopico è fortemente impegnato a decidere il proprio destino attraverso un processo democratico e pacifico».

In realtà le elezioni sono state rinviate a settembre in tre regioni (Tigray, Harar e regione dei Somali); in quelle in cui si è votato, dei 419 seggi in palio ben 410 sono andati al Partito della Prosperità del premier Abiy.

La questione delle armi

In buona sostanza il governo è convinto di poter risalire la china delle sconfitte militari inanellate a partire dal mese di giugno rafforzando il blocco attorno al Tigray, al fine di asfissiare le forze ribelli per mancanza di rifornimenti. Di conseguenza queste sono costrette a riprendere l’iniziativa militare, che è ciò che stanno facendo: l’attacco al territorio Afar si spiega con l’obiettivo di interrompere il collegamento ferroviario che rifornisce l’Etiopia, paese senza sbocco al mare, attraverso i porti di Gibuti; l’attacco al territorio Ahmara si spiega con l’obiettivo di aprire una via fra il Tigray e il confine col Sudan attraverso la quale potrebbero passare rifornimenti alimentari e bellici.

Finora i tigrini hanno combattuto con armi sottratte alle forze federali e con quelle dei reparti che sono passati armi e bagagli con i ribelli, ma senza rifornimenti militari regolari non possono sperare di tenere testa al governo. Inoltre 400 mila persone rischiano la carestia nel Tigray se non arrivano urgentemente rifornimenti alimentari. I tigrini sperano di approfittare dei cattivi rapporti fra Etiopia e Sudan, che si contendono la sovranità sulla regione di confine di al-Fashaga, una terra molto fertile dalla quale i sudanesi hanno espulso migliaia di contadini etiopici nel dicembre scorso; e che sono ai ferri corti a causa della diga sul Nilo Azzurro nota come Grand Ethiopian Renaissance Dam, attraverso la quale l’Etiopia sottrae acque nilotiche (e soprattutto fanghi fertili) a Sudan ed Egitto.

La balcanizzazione del conflitto

La principale controindicazione alla tattica del Fplt consiste nel fatto che, diversamente dagli anni Ottanta del secolo scorso, le altre etnie che popolano l’Etiopia non vedono di buon occhio un ritorno al potere a livello nazionale dei tigrini, che pur costituendo appena il 7 per cento di tutta la popolazione hanno egemonizzato il potere civile e militare negli anni che vanno dalla caduta del regime del Derg comunista sotto il colonnello Menghistu nel 1991 fino all’ascesa di Abiy nel 2018.

Il reclutamento di volontari nelle altre regioni del paese in vista di una controffensiva governativa procede alacremente, anche se è vero che un esercito di coscritti sarebbe un facile boccone per i più esperti combattenti tigrini.

Probabilmente i leader della rivolta (il deposto presidente regionale del Tigray Debretsion Gebremichael e il comandante delle Fdt Tsadkan Gebretensae) pensano che una prolungata guerra fra tigrini e governativi incoraggerà le guerriglie separatiste già attive da tempo in altre regioni, in particolare il Fronte di liberazione Oromo in Oromia, il Fronte di liberazione nazionale Ogaden nella regione dei Somali e il Fronte di liberazione Sidama nell’omonima regione. Il governo centrale sarebbe allora costretto a combattere su più fronti, e finirebbe per andare in crisi come accadde trent’anni fa al regime di Menghistu. Sull’Etiopia, paese di 117 milioni di abitanti, si allungano la prospettiva della balcanizzazione e la certezza di una sanguinosa e prolungata guerra civile.

Foto Ansa

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