A Kukës il buonismo rischia grossoA Kukës il buonismo rischia grosso

Di Rodolfo Casadei
21 Aprile 1999
Quando la retorica dell’intervento umanitario si scontra con la dura realtà

Franco Barberi, sottosegretario alla protezione civile, e Rosa Russo Jervolino, ministro degli interni, hanno un diavolo per capello: perché a Kukës solo gli italiani si danno da fare? Perché l’Alto Commissariato per i rifugiati non mantiene la sua promessa di alzare una tendopoli da 12 mila posti? Perché gli svizzeri non aprono il loro campo? Perché nella vicina Spitall i tedeschi hanno insediato pochissime tende? Perché continuiamo a restare soli col nostro campo da3.200 posti, affollato da 6 mila anime disperate, e solo noi ci muoviamo per crearne un altro da 5 mila? Forse perché siamo più generosi ed efficienti di tutti gli altri? No, solo più incoscienti e inesperti. Checché ne dicano il ministro e il suo sottosegretario, Kukës è esattamente il posto dove non dovrebbe mai essere creato un campo profughi stabile: è una località in piena zona di guerra, a meno di mezz’ora dal confine col Kosovo; è situata in alta montagna in una valle priva di acqua potabile, fogne e linee telefoniche; è quasi inaccessibile per via di terra (per portarci un carico da Tirana ci vogliono 14 ore di strade sterrate) e per via aerea è accessibile solo agli elicotteri.

I costi per gestire un campo profughi in un posto del genere sono e saranno altissimi, e in caso di operazioni militari l’evacuazione della zona avrà contorni catastrofici: i rifugiati attualmente sono 135 mila in un’area che prima era abitata da 5 mila persone. Scrive il Corsera che “l’idea iniziale era che i kosovari se ne andassero da Kukës. Ma loro vogliono rimanere qui. E allora il mondo sta a guardare questa gente accampata, senza intervenire troppo, aspettando che siano loro a decidere di autodeportarsi di nuovo”. Noi italiani, invece, per bocca del presidente del Lazio Piero Badaloni annunciamo la creazione di un “villaggio delle Regioni” da 5 mila posti. Kukës ha tutti i numeri per diventare la Caporetto del buonismo italiano.

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