
A Kukës il buonismo rischia grossoA Kukës il buonismo rischia grosso
Franco Barberi, sottosegretario alla protezione civile, e Rosa Russo Jervolino, ministro degli interni, hanno un diavolo per capello: perché a Kukës solo gli italiani si danno da fare? Perché l’Alto Commissariato per i rifugiati non mantiene la sua promessa di alzare una tendopoli da 12 mila posti? Perché gli svizzeri non aprono il loro campo? Perché nella vicina Spitall i tedeschi hanno insediato pochissime tende? Perché continuiamo a restare soli col nostro campo da3.200 posti, affollato da 6 mila anime disperate, e solo noi ci muoviamo per crearne un altro da 5 mila? Forse perché siamo più generosi ed efficienti di tutti gli altri? No, solo più incoscienti e inesperti. Checché ne dicano il ministro e il suo sottosegretario, Kukës è esattamente il posto dove non dovrebbe mai essere creato un campo profughi stabile: è una località in piena zona di guerra, a meno di mezz’ora dal confine col Kosovo; è situata in alta montagna in una valle priva di acqua potabile, fogne e linee telefoniche; è quasi inaccessibile per via di terra (per portarci un carico da Tirana ci vogliono 14 ore di strade sterrate) e per via aerea è accessibile solo agli elicotteri.
I costi per gestire un campo profughi in un posto del genere sono e saranno altissimi, e in caso di operazioni militari l’evacuazione della zona avrà contorni catastrofici: i rifugiati attualmente sono 135 mila in un’area che prima era abitata da 5 mila persone. Scrive il Corsera che “l’idea iniziale era che i kosovari se ne andassero da Kukës. Ma loro vogliono rimanere qui. E allora il mondo sta a guardare questa gente accampata, senza intervenire troppo, aspettando che siano loro a decidere di autodeportarsi di nuovo”. Noi italiani, invece, per bocca del presidente del Lazio Piero Badaloni annunciamo la creazione di un “villaggio delle Regioni” da 5 mila posti. Kukës ha tutti i numeri per diventare la Caporetto del buonismo italiano.
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