Kerry, illusione zapatera

Di Rodolfo Casadei
29 Aprile 2004
Zapatero, Chirac e altri europei sabotano con tutti i mezzi la politica di Bush in Irak nell’illusione che Kerry li compiacerà. Sbagliano di grosso: il candidato democratico non intende rinunciare al comando militare

eneralissimo Zapatero”: più ingiuriosi di così nei confronti del nuovo primo ministro spagnolo non si poteva essere, soprattutto considerando che il nonno del leader socialista fu fucilato dai franchisti durante la guerra civile spagnola. Eppure il Wall Street Journal (Wsj) del 20 aprile scorso non ha avuto alcuna remora a titolare nientemeno che un editoriale con questo appellativo, che il nuovo premier si meriterebbe non per inclinazioni fasciste, ma perché starebbe rieditando l’isolazionismo a cui Francisco Franco consegnò la Spagna nei quasi quarant’anni del suo regime. «L’improvvisa decisione di Josè Luis Rodriguez Zapatero – scrive l’editorialista commentando il ritiro anticipato delle truppe spagnole dall’Irak – è più in linea con l’isolazionismo e, sissignore, l’antieuropeismo che caratterizzò i 40 anni di potere di Francisco Franco. Sembra che il vecchio grido del Generalissimo, “l’Europa finisce ai Pirenei”, torni ad essere udito a Varsavia, Roma, Londra, L’Aja, Copenhagen e le altre capitali che hanno inviato truppe in Irak». Sono critiche che dovrebbero far fischiare le orecchie anche a Romano Prodi il quale, prima di essere corretto dal suo portavoce (che ha definito «non utile» il ritiro unilaterale spagnolo), aveva avuto la spudoratezza di commentare così l’iniziativa di Zapatero: «La spaccatura che aveva impedito all’Europa di avere una linea si sta ricomponendo». Come se i 15 paesi su 25 dell’Unione Europea (Ue) allargata che mantengono truppe in Irak (tutti quelli citati dal Wsj più il Portogallo e tutti i nuovi paesi membri tranne Malta, Cipro e la Slovenia) fossero parenti poveri, o forse entità extracomunitarie.
A parte Prodi double face e la sinistra della sinistra italiana (correntone Ds, Verdi, Comunisti italiani, Rifondazione comunista), Zapatero ha raccolto critiche e dissensi lungo un vasto fronte che va dalla sinistra riformista alla gerarchia cattolica. Il quotidiano Il Riformista ha usato toni sprezzanti quasi quanto il Wsj: «A questo punto si deve prendere seriamente in considerazione l’ipotesi che Zapatero non sia un Prodi iberico, ma un Folena spagnolo. Che, cioè, più che la svolta gli interessi il ritiro». E ha fatto propria, attraverso la penna del senatore Ds Franco Debenedetti, l’accusa di isolazionismo estendendola all’Europa intera: «Quella della Spagna è stata una decisione unilaterale. E saremo noi ad isolarci… Questo è il vero pericolo che ha di fronte l’Europa e che tanti che si dicono europeisti sembrano non vedere: un isolamento che ci condannerebbe all’irrilevanza. L’America può anche perdere l’Irak (quod Deus avertat) ma resterebbe sempre con la sua potenza economica e militare in un mondo inevitabilmente polarizzato tra Usa e Cina. Non sarebbe la sconfitta dell’Occidente, sarebbe solo la sconfitta dell’Europa».

LA CHIESA CATTOLICA CONTRO LA FUGA
Anche il cardinale Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio per la giustizia e la pace ed infaticabile oppositore della guerra americana all’Irak nei mesi cruciali della crisi, oggi critica velatamente il nuovo governo spagnolo parafrasando l’Ecclesiaste: «C’è un tempo per le promesse e un tempo per la loro realizzazione», risponde a chi gli chiede dell’accelerazione di Zapatero, e sottolinea che oggi l’Irak, lasciato solo, precipiterebbe «in una guerra di tutti contro tutti, che finirebbe probabilmente con lo sfociare in un regime fondamentalista». Per parte sua il cardinale Camillo Ruini, presidente dei vescovi italiani, intervistato da Repubblica ripete il 23 aprile le parole pronunciate al funerale delle vittime italiane di Nassiriya in novembre: «Continuo a dire che non bisogna fuggire e penso che bisogna fare di tutto perché quelle popolazioni percepiscano la nostra presenza in senso positivo come mi pare gli italiani stiano riuscendo a fare a Nassiriya».
Zapatero non ci sta a passare per codardo e isolazionista, e risponde e fa rispondere al suo ministro degli Esteri Miguel Angel Moratinos che la Spagna continua a partecipare alla guerra contro il terrorismo, come dimostra la permanenza dei suoi soldati in Afghanistan (dunque Madrid continuerà ad essere considerata un bersaglio legittimo da Al Qaeda, che ha offerto una “pace separata” ai paesi europei a condizione che ritirino le loro forze da “tutti” i paesi musulmani). La ragione di fondo del ritiro il primo ministro l’ha spiegata in un’intervista a El Mundo e al Corriere della Sera: «Abbiamo raccolto una frase di un alto funzionario americano: “Lei si immagina che 130mila soldati americani siano comandati da una persona che non sia un generale americano?”. Era evidente che non c’era nessuna possibilità che l’Onu prendesse il controllo». Zapatero, insomma, ha anticipato il ritiro per evitare di restare intrappolato in una situazione non gradita: una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che consegnasse all’Onu la gestione politica della transizione irakena, lasciando agli americani il comando delle forze militari. Il consenso dell’amministrazione Bush al piano Brahimi il 16 aprile u.s. prefigura questa soluzione: la nomina del governo provvisorio irakeno post 30 giugno e la sua supervisione all’inviato Onu Lakhdar Brahimi, la gestione della sicurezza agli americani. Ma di questa soluzione Zapatero e gli zapateristi europei non si possono accontentare: rappresenterebbe comunque una legittimazione ex post della guerra anglo-americana, che è proprio quello che loro non possono accettare. E qui si inserisce il grande silenzio di Jacques Chirac e di Gerhard Schroeder, della Francia membro permanente del Consiglio di sicurezza e della Germania membro a rotazione che non prendono iniziative sulla crisi irakena, e si limitano ad auspicare che il 30 giugno sia «una data di rottura»: perché? Perché la pace, le ragioni umanitarie, le vite dei civili irakeni e quelle dei soldati della coalizione non contano niente: bisogna solo fare tutto il possibile perché Bush arrivi alle elezioni di novembre nelle peggiori condizioni possibili per quel che riguarda l’Irak, così che a vincere sia John Kerry, il candidato presidente che ha pubblicamente condannato «lo sprezzante unilateralismo dell’amministrazione Bush». In quel momento, e solo in quel momento, gli oppositori europei della politica Usa manifesteranno la loro disponibilità a co-gestire la crisi con un presidente americano finalmente disposto a condividere con loro la leadership planetaria.

IL KERRY VIRTUALE E QUELLO REALE
Peccato che il Kerry immaginato da Zapatero e Chirac esista soltanto nei sogni: quello reale, che potrebbe anche vincere le elezioni di novembre, non ha nessunissima intenzione di passare il comando dei 130mila soldati americani all’Onu. Anzitutto Kerry ha intenzione di accrescere l’impegno militare Usa in Irak; il punto due del suo documento per la campagna elettorale “Una strategia per vincere la pace in Irak” recita: «Fornire ai nostri comandanti militari le truppe aggiuntive richieste… Per avere successo, abbiamo bisogno di più forze su base temporanea. I comandanti sul terreno le hanno richieste, noi dobbiamo fornirle». Il multilateralismo di Kerry, poi, è molto diverso da quello che alcuni europei vogliono far credere. Il candidato democratico sostiene il piano Onu di Brahimi (come Bush, del resto), ma per quel che riguarda la componente militare «crede che sia possibile trasformare la forza Usa in una forza della Nato, comandata da un americano. Dobbiamo inviare una missione di alto livello a consultare i nostri partner Nato per incoraggiare la loro partecipazione… così che i soldati e il popolo americano non portino da soli tutto il peso e tutto il rischio». Sia Kerry che Bush che qualunque altro politico americano degno di questo nome sono contrari a cedere il comando militare all’Onu perché considerano la stabilizzazione di un Irak non ostile una questione di sicurezza nazionale, e sulla sicurezza nazionale non si cedono le competenze ad un soggetto esterno. Chi ama citare la tirata di Kerry contro Bush sulla questione dell’unilateralismo contenuta nel libro Un’America nuova dimentica troppo spesso di citare anche le parole che seguono: «Non possiamo permettere che il nostro programma di sicurezza nazionale sia stabilito da coloro che si oppongono a qualunque intervento militare statunitense in qualunque luogo… e che vedono la potenza statunitense come una forza prevalentemente maligna sulla scena mondiale. L’amministrazione Bush non è affatto la sola colpevole della rottura dei rapporti tra Usa e Onu sul caso Irak. Francia, Germania e Russia non hanno mai sostenuto o presentato una politica praticabile per accertare che le risoluzioni delle Nazioni Unite fossero realmente messe in atto in quel paese. Ed è evidente che la Francia stia accarezzando la fantasia rediviva di De Gaulle di fare dell’Europa un contrappeso indipendente alla potenza statunitense, naturalmente guidato da Parigi». Se Chirac e le sinistre europee aspettano Kerry per fare i “bauscia” con un’America che accetta di umiliarsi, stanno freschi. Per adesso la loro politica serve solo a imbaldanzire gli estremisti arabi di tutti i bordi, perché, come scrive il Wsj, «l’appeasement non è negli occhi di chi fa le concessioni, ma in quelli di colui a cui vengono fatte».

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