Kenya. Altra strage di Al Shabaab. «Terroristi estremizzati in Somalia da soggetti yemeniti. Ma godono di complici in loco»

Di Emmanuele Michela
18 Giugno 2014
Intervista a padre Giulio Albanese, a lungo missionario nel paese: «Troppi appetiti stranieri dietro i conflitti del Corno d'Africa. Religione usata per fini eversivi»

C’è stato un altro attacco in Kenya a opera dei terroristi di Al Shabaab, dopo la strage negli hotel di Mpeketoni di domenica sera in cui sono state uccise 48 persone. Ad essere colpito, questa volta, è stato il villaggio di Majembeni, sempre sulla costa del Paese, non lontano dall’isola di Lamu: le vittime sono almeno 9 e, come riferisce l’Agenzia Fides, vi sarebbero stati anche sequestri di donne e bambini. Inevitabilmente la paura cresce in tutto il paese, da anni segnato dall’instabilità della confinante Somalia, da dove provengono le armate islamiste di Al Shabaab. «È chiaro che al momento la preoccupazione riguarda le aree limitrofe al mare, ma ovviamente lo stato d’allerta si avverte anche a Nairobi e nei grandi centri abitati». A parlare a tempi.it è padre Giulio Albanese, comboniano, per anni in missione in Kenya e direttore di Popoli e Missione. «Il governo di Nairobi è impegnato da tempo in una azione militare in territorio somalo, ed era stato preannunciato che se fosse intervenuto al di là dei confini avrebbe dovuto temere una ritorsione degli Al Shabaab».

Padre Albanese, cosa rallenta una risoluzione dei problemi tra Kenya e Somalia?
Per prima cosa bisogna considerare che la comunità somala è numerosa in Kenya. Purtroppo sappiamo bene che questi terroristi godono dell’appoggio di elementi che sono radicati nel paese. Gli attentati si possono compiere se in un modo o in un altro vi sono dei complici. Talvolta anche insospettabili.

A chi si riferisce?
Come mai gli Al Shabaab operano in maniera spregiudicata in Kenya e non fanno nulla in Etiopia? Eppure l’Etiopia è intervenuta per prima in Somalia e pure in maniera massiccia. È chiaro che il Kenya ha maggiore visibilità: ci vanno i turisti, ci sono i resort, ci sono interessi stranieri. È anche vero però che in Etiopia i sistemi di sicurezza sono qualitativamente più attrezzati, e l’esercito etiope in questi anni è stato molto solerte. Ma la cosa da dire è un’altra: in Kenya c’è grandissima corruzione tra le file della polizia e dell’esercito, e tutto ciò può aver dato maggior spinta gli Al Shabaab. Ciò che è certo è che le forze di sicurezza potrebbero fare molto di più per garantire la sicurezza.

Entrambi gli attacchi sono stati effettuati sulla costa: cosa porta i terroristi a “preferire” queste zone invece di una grande città come Nairobi, che fu invece colpita lo scorso settembre?
Per fare un’azione terroristica a Nairobi ci vuole un’ingente preparazione, un vero e proprio lavoro di intelligence. La costa invece è un obiettivo più facile: ci sono centri più piccoli, e soprattutto è una zona dove c’è maggioranza islamica. Questo porta con sé due vantaggi: non richiede un impegno eccessivo, come invece servì per l’attacco al centro commerciale di Nairobi dello scorso settembre, e in secondo luogo è più facile trovare supporto “in loco” per eventuali aiuti o copertura. Oltretutto, non dimentichiamoci che quando parliamo di Kenya e Somalia parliamo di due stati divisi da una lunga linea che nessuno controlla. Le frontiere sono un vero problema: noi parliamo degli Al Shabaab, ma ci sono un sacco di altri clan che popolano e comandano quelle zone. Non è da escludere che gli stessi terroristi si appoggino alla manovalanza criminale locale.

Come mai è tanto difficile arrivare a una soluzione della crisi in Somalia?
La questione somala è legata a interessi ancora poco illustrati. Purtroppo si torna sempre lì, alle immense ricchezze del territorio: la Somalia galleggia sul petrolio, tutto greggio light a bassa quantità di zolfo. Ce n’è tantissimo sulla costa che guarda verso lo Yemen, e pure nelle acque verso l’oceano aperto. In più è ricca anche di uranio. Gli appetiti stranieri sono tali per cui interagiscono molte componenti, ed è risaputo che molte confraternite islamiche legate al business del petrolio guardano con interesse a questa sponda: c’è da credere che molti dei finanziamenti che ricevono gli Al Shabaab arrivino da lì.

Tornando alla cronaca dell’attacco di domenica, fa impressione leggere i racconti dei sopravvissuti: le vittime venivano scelte in base alla religione, chi non sapeva recitare versi del Corano veniva ucciso.
Sì, è impressionante. Dietro alla follia di Al Shabaab c’è una strumentalizzazione della religione per fini eversivi. C’è un’ideologia che ha precisi obiettivi, a partire dall’imposizione della sharia e l’islamizzazione di queste terre. Ma ci sono anche interessi tutt’altro che religiosi. In Somalia ho avuto occasione di andare tante volte, e posso garantire che ci sono tantissimi musulmani che definire moderati è poco. La moderazione appartiene alla storia di questo paese, ma negli ultimi 10 anni è successo qualcosa che ha scombussolato tutto: parliamo di soggetti che vengono dallo Yemen, che sono entrati nel paese creando scuole coraniche molto rigide. E così si sono costruiti un grande seguito. Questa cosa va sottolineata, anche perché in molti casi gli Al Shabaab hanno ucciso gli stessi musulmani.

Le due azioni sono anche un duro colpo al turismo, che rappresenta la seconda risorsa del paese.
Certo, colpire la costa significa mettere in ginocchio non solo quelle località turistiche, ma tutto il paese. Perché i turisti che scelgono la costa poi vanno anche a Nairobi, e nei parchi. Quindi un attacco lì è un colpo basso a tutto l’equilibrio economico del Kenya.

La violenza terroristica di Al Shabaab è interpretata da molti osservatori come una reazione all’invasione armata del Kenya in Somalia nel 2011. Un’azione che qualcuno ancora contesta.
È vero, c’è ancora qualcuno che contesta. Ma alla fine all’intervento del Kenya è stata offerta comunque la benedizione della comunità internazionale. Anche nell’ambito dell’Igad, l’organizzazione politico-commerciale dei paesi del Corno d’Africa, l’operazione fu vista come un consolidamento dell’iniziativa di sostegno al governo di Mogadiscio. Il Kenya però non è riuscito a garantire l’osservazione dello Stato di diritto in Somalia, al pari dei soldati dell’Uganda, intervenuti a loro volta. E infatti la Somalia continua a essere in cronica anarchia e instabilità: lo è ormai dal ’91. Quello che si è capito concettualmente ma non ancora politicamente è che risolvere la questione somala è vitale per tutto il Corno d’Africa.

@LeleMichela

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