
Che fine ha fatto Kamala Harris

“Frustrazione”, è stata questa la parola usata per descrivere il giudizio che serpeggia alla Casa Bianca su Kamala Harris. I primi a fare da cassa di risonanza ai malumori sono stati gli insospettabili della CNN, dieci giorni fa, un pomeriggio di una placida domenica di fine novembre. E a conferma che, dopo settimane di borbottii imbarazzati a malapena sussurrati, non si trattava del classico e rossiniano venticello, a tarda sera era arrivato il comunicato della portavoce di Joe Biden per rassicurare il paese: il presidente considera la sua vice un «partner vitale» e conta sulla sua «audace leadership». Ma ormai era tardi. Anche per i media mainstream il Re, o meglio, la Regina era nuda.
Perfetta in campagna elettorale, ma poi…
Assieme alle sempre più insistenti domande dei cronisti, sono arrivate le dimissioni della direttrice della comunicazione di Harris, poi quelle di altre due assistenti e infine l’addio della portavoce. Sono riemerse indiscrezioni sulle preoccupazioni che aleggiano tra i papaveri democratici in ottica 2024 e ben pochi, tra diplomatici silenzi e acrobatiche risposte, sono andati in soccorso della prima donna vicepresidente della storia americana. Perché? Perché l’amore era un calesse, chioserebbe Troisi, o forse, più semplicemente, perché Kamala Harris non è come viene presentata.
L’immagine di Kamala – donna, californiana, rappresentante delle minoranze afroamericana e asiatica – era perfetta e funzionale per l’elezione di Joe Biden, bianco della East Coast, anziano e moderato. La necessità di ricompattare il Partito democratico e di mobilitarlo per sconfiggere Donald Trump, avevano fatto dimenticare alla base e agli analisti il passato della candidata vicepresidente. Nel cassetto erano finite la sua carriera di politica sì arrembante, ma più moderata che radicale, le sue battaglie da Procuratrice generale della California a difesa delle forze di polizia; era stato scordato il flop della sua campagna alle primarie presidenziali dopo un promettente inizio; obliterati il caos organizzativo e il conseguente fuggi fuggi nel suo staff elettorale… Perché? Perché quel che Kamala rappresentava era più importante di quello che era. Non era solo una numero due, era un simbolo. E una possibile alternativa per il futuro democratico.
Delusione Kamala Harris
Si governa in prosa, la poesia elettorale viene presto scordata. La presidenza Biden ha dovuto fare i conti con una maggioranza fragile, un’ostilità stabile e malumori crescenti (Covid, Afghanistan, inflazione), mentre Harris è parsa spesso latitante se non ridotta a comparsa, diligentemente a qualche metro dietro il presidente. Non l’ha aiutata aver eredito il dossier più scottante (l’immigrazione), non ha aiutato la macchinosa lentezza dei suoi interventi (oltre due mesi prima di andare al confine sud), né è piaciuta all’ala democratica più naïve e radicale l’aver dovuto adottare alcune delle severe politiche del predecessore Trump. Così dopo un anno di luna di miele ideologica, la sua vicepresidenza fondata sull’immagine scricchiola.
Allarmati, nell’ansia da campagna elettorale permanente, media e Democratici hanno già iniziato il conto alla rovescia alle Presidenziali 2024. Allora Joe Biden avrà 82 anni. Solo due vice (Bush e Biden) negli ultimi cinquant’anni sono stati eletti presidenti. Il ruolo di Harris è probabilmente sovrastimato e lei ha ancora tempo per uscire dal cono d’ombra in cui pare essersi infilata, ma quello che sta avvenendo attorno alla sua figura pare emblematico delle difficoltà e della confusione nel partito democratico, in equilibrio tra ideologie e realtà, e in chiara crisi di popolarità.
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