
Jean Valenti. «E che Dio vi benedica, che ne avete bisogno»

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Ancor prima di vedersi salutare per l’ultima volta dalle toccanti parole del presidente dell’Associazione italiana sommelier Antonello Maietta e dalla stupenda corona di fiori di Giuseppe Vaccarini, che egli allevò al “tast de vin” e condusse a vincere il Concorso Miglior Sommelier del Mondo, a Estoril, Portogallo, anno 1978. Prima ancora di essere monsieur Enoch, cantiniere e assaggiatore d’eccezione, egli era un uomo che un tempo avremmo detto di Dio, di patria e di famiglia. Ti bombardava di domande che hanno l’ampiezza di uno che non vuole rassegnarsi a vivere di ricordi, e non ti mollava più. Finché non gli davi soddisfazione. «Luigi, come va la politica?». «Francesco, come va il Guastalla?». «Teresina, hai deciso cosa fare all’università?». «Cianci, mi hanno invitato ai campionati di sommelier, mi accompagneresti?». «Annalena, vorrei andare da Duilio, mi guardi i voli per San Francisco?». «Gloria vieni con me dalla Rosette a Roma?».
Quest’uomo che ha mangiato con voracità fino all’ultimo istante della sua vita, e che aveva una fame di vita che con tutta la vita che perdiamo, noi, stando immersi nel petteguless digitale, neanche ci sogniamo, settimana scorsa aveva 93 anni quando è spirato in pace tra le braccia dei suoi figli e della nipote Teresa. Era mezzogiorno passato da cinque minuti del 4 ottobre. Il giorno del mio sessantesimo compleanno. Se n’è andato preparandosi all’ultimo respiro distribuendo sorrisi e biglietti da visita ai compagni di stanza all’ospedale San Gerardo di Monza. È morto alzando al Cielo il calice dei suoi ultimi pensieri di gratitudine. Perché era proprio un uomo così, un uomo gaio e grato. E così è morto. Andandosene «nelle vigne del Signore» (così diceva lui), come quando al tavolo nella nostra grande tribù, qualunque fosse l’occasione del nostro ritrovarci insieme (ed erano anni che non mancava il pranzo della domenica a casa nostra), alzava un calice di vino e, povero com’era, offrendoci molto di più che l’eredità del tesoro francescano che possedeva, allegramente brindava all’amore e alla felicità di tutta la tribù. «E che il Signore vi benedica», diceva, aggiungendo sornione, «che ne avete bisogno». Quest’uomo di un altro tempo, ma incredibilmente tenace nel voler rimanere piantato nel nostro tempo, si chiamava Jean Valenti. Era mio suocero. Ed era nato a Casazza, provincia di Bergamo, il 25 aprile 1923.
Le sue tre donne
Nelle sue Memorie di un vecchio sommelier, sostenuto nel ricordo dalla bella penna del nipote Cianci, Jean ricorda che la sua iniziazione al mondo e all’arte del vino risale all’autunno del 1939. «Lavoravo nella cantina del Grand Veneur di Barbizon, in Francia». Grande affabulatore, la vita che egli stesso non ha mai smesso di raccontare a figli e nipoti è stata un’epopea di quelle che solo il Il cavallo rosso di Eugenio Corti si è avvicinato a comprendere. Emigrato nella campagna parigina con tutta la sua parentela di muratori e scalpellini, contadini e viticoltori, di quei suoi anni di infanzia, di fungaie e di eserciti di bergamaschi sotto lo stesso tetto, due aneddoti ha lasciato particolarmente impressi nella memoria di suo genero. La prima fidanzatina che giovinetto va a trovare in ospedale finché un giorno la mamma gli dice: «Jean, non andare più, è morta». La prima comunione con annessa gazzarra di bandiere rosse sul piazzale della chiesa. Da questi due episodi, sospettiamo, discende il torrente di avventure che condurrà il giovanissimo Jean volontario in Russia. Quindi alla salvezza miracolosa (egli la attribuiva alla Madonna di Czestochowa, essendo il treno che lo trasportava al fronte transitato da Cracovia) che per eterogenesi dei fini gli verrà da due donne russe. Salvato da una infermiera che «puzzava di formaggio». La quale lo prese di peso e lo buttò su un carretto di fieno, sottraendolo alle grinfie dei fantaccini sovietici che gli furono addosso non appena quasi tutti gli ottocento suoi commilitoni vennero uccisi, fatti a pezzi in un campo di patate, da una selva di missili katjuscia. Salvato, in metafora di tutte le madri del mondo (e alla madre nata in Savoia Valenti fu così visceralmente legato che non parlò mai italiano per tutta la vita ma parlò sempre e soltanto un italiano con inflessione francese), da una contadina russa «dall’odore di pane bianco». Una mugika che, in uno dei cinque-seicento giorni che trascorse prigioniero in un lager degli Urali (dove i russi lo avevano sistemato e dove ogni settimana le guardie venivano a ritirare un compagno di branda per buttarlo cadavere segnato con la pece in una fossa comune), gli regalò una carezza e un tozzo di pane morbido. Perché era stato rinchiuso in una baracca e avviato ai lavori forzati? Perché tagliava e affastellava legna nei boschi con gli altri prigionieri di guerra? Perché aveva resistito a tre settimane di treno blindato, coperto di vermi che gli succhiavano il sangue della ferita alla spalla e cadaveri che gli marcivano accanto? Perché ce l’aveva fatta ad arrivare a Tambov, dopo chilometri e chilometri di marcia forzata, a piedi scalzi nella neve, fasciato di stracci, avendo assistito all’uccisione dei prigionieri stremati, quelli che cadevano a terra e quelli che si rifiutavano di andare avanti? Perché il Destino gli doveva riservare una sorpresa di quelle che segnano la vita per sempre. Perché una povera madre contadina russa, donna a cui lui era andato a insidiare la terra e a combattere i figli, sarebbe venuta a cercarlo nei boschi. Per allungargli un pezzo di pane bianco. Fargli una carezza. E sussurrargli dopo un segno di croce «mangia, fratello».
Fu forse di qui, grazie alle sue tre donne (la mamma, l’infermiera e la mugika), che Jean trasse l’energia che gli ha fatto vivere il resto dell’esistenza come una passeggiata francescana in carrozza. Tant’è che se avesse messo a partito uno solo degli illustri incontri al Savini (da Jacqueline Kennedy a Onassis, da Agnelli a Berlusconi) forse Valenti non sarebbe stato un Caprotti, ma un Veronelli sì. Valenti però viveva spensierato. E suo figlio Francesco sa di che spensieratezza stiamo parlando, la illuminò un giorno sua figlia Caterina, quando dopo aver ascoltato il racconto della Russia, esclamò: «Nonno, chissà quanta fame hai sofferto in campo di concentramento!». «Sì, ma non sai quante scorpacciate di fragoline mi sono fatto nei boschi!». Jean Valenti sopravviverà alla guerra e alla pace. Sopravviverà al lager e, migrato in Svizzera dopo il transito in un campo di prigionia alleato in Belgio, nell’immediato Dopoguerra sopravviverà anche alle condanne a morte dei comunisti francesi. Condanne a morte per coloro che erano andati volontari a combattere contro «l’esercito dei fratelli liberatori e il padre di tutti i popoli liberi, Giuseppe Stalin» («ma – diceva Jean – io non sapevo neanche cosa fosse il fascismo, ero giovane, però avevo conosciuto i comunisti, questo sì»).
Poi, in un hotel delle Alpi svizzere, conoscerà la donna della sua vita. Palma Libèra. Negli anni Cinquanta, impossibilitato a raggiungere i genitori in Francia, Valenti rientrerà in Italia. E da Sondrio, dove andrà a vivere dopo le nozze e avrà i tre figli, si trasferirà poi a Milano. Patria della sua avventura di sommelier. Dal Savini alla fondazione – tessera numero 1, anno 1965 – dell’Associazione italiana sommelier (Ais). Avventura che, quasi mezzo secolo dopo, verrà onorata con riconoscimenti e medaglie al valore professionale, in giro per l’Italia e perfino all’estero.
Autosufficiente ma mai solo
Una delle cose più potenti e commoventi che ho visto in vita mia – a riprova, come diceva Giussani dell’Annuncio a Maria di Paul Claudel, che «l’amore è generatore dell’umano secondo la sua dimensione totale, vale a dire l’amore è generatore della storia della persona in quanto generazione di popolo» – è la mattina che corsi su alla Sirta, microfrazione valtellinese, dove Jean piangeva «la Palma», morta improvvisamente per un colpo al cuore. Piangeva il vecchio Jean e non si capacitava di come dopo anni di asprezze e sofferenza, sua moglie si fosse totalmente addolcita. «È morta con quel libro lì in mano. Negli ultimi tre mesi non ha fatto altro che leggere e rileggere quel libro lì. Teneva solo quello sul comodino». Quel libro lì era L’Annuncio a Maria. Ed ora eccoli, la Palma e il Jean, riposare insieme sotto le montagne, nel piccolo e bellissimo cimitero della Sirta.
Charles Péguy direbbe di Valenti che «era assolutamente la vecchia Francia, il popolo della vecchia Francia. Era un uomo nel quale questo bel nome, questa bella parola che è popolo, trovava la sua piena, classica incarnazione». Fino al giorno della sua morte non ha mai voluto andare a vivere a casa di nessuno dei suoi tre figli. Voleva badare a se stesso. Alzarsi ogni mattina, riordinare casa, fare la spesa, cucinare, farsi la sua tazza di tisana. Da sé. Senza pesare su nessuno. Ha vissuto così, fino a 93 anni e rotti, fregando le nipoti Clara e Teresa («dai nonno, veniamo a stare da te, così ti facciamo compagnia»). Fregando la figlia Annalena («dai papà, al mare ti prepariamo la stanza al piano terra così non fai le scale» e Jean: «Sì, facciamo così, però l’anno che viene»). Fregando il cancro che aveva fatto capolino (ma che non ha fatto in tempo ad aggredirlo perché lui gli ha fatto “ciaone”). Jean Valenti viveva autosufficiente in via don Girotti 57, a Concorezzo, dove la nuora Grazia Fertoli gli aveva messo a disposizione un quadrilocale così magnificamente esposto al sole che sul balcone crescevano fiori così belli e dai colori così sgargianti, che si fatica a pensare alle brume della bassa Brianza.
Ma non è vero che vivesse solo soletto il Jean. Al terzo piano dove abitava, viveva circondato da quella razza di popolo che lui incarnava fieramente, e allegramente. Viveva in una palazzina di proprietari in cooperativa, circondato e rallegrato dall’affetto e dalle attenzioni di lavoratori del Nord e del Sud Italia insieme. Circondato dall’amore di gente che in comune ha il sudore, la generosità, la cordialità del popolo. Non ce ne devono essere più tanti in giro di condomini così. Dove invece che a farsi la guerra, la gente pensa a sostenersi vicendevolmente. E se arriva un vecchio di buon umore come il Valenti, la gente fa a gara ad adottarlo. Chi come Calogero, che adesso piange «perché non posso più portargli il giornale ogni mattina». Chi come le altre famiglie – tutte presenti al rito dell’addio – che un giorno gli facevano da infermieri perché doveva mettere il collirio, un altro gli cambiavano la lampadina del soffitto. Ecco, tutto qui. Un altro brindisi a nonno Jean. «E che Dio vi benedica, che ne avete bisogno».
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