
Italia quasi quasi me ne vado
Non l’avevo mai sentita questa frase. Adesso la sento in ogni dove. In sostanza, la gente non crede più nell’Italia, ricomincia ad aver desiderio di emigrare. Un desiderio che era cessato fin dalla fine degli anni Cinquanta. La prima volta che l’ho sentita, questa frase, è stata un paio di mesi fa, a Milano, in una sera di pioggia, gelida e battente. Incrocio sul marciapiede due giovani un poco intirizziti che camminano in fretta. Colgo quindi solo un brandello di conversazione. Uno di loro dice: «È da tempo che mi viene voglia di scappare e di andare in America». E il tassista romano, sulla quarantina, fresco di licenza, con un passato duro da camionista, non è da meno. Si confida: «Credevo, con la licenza da taxista, di aver toccato il cielo con un dito. Finalmente a casa tutte le sere, in famiglia. Per me si era messa bene. Ma adesso mi accorgo di essere molto preoccupato per i miei figli. Qui sta venendo giù tutto. E noi stiamo sotto. Ne parlo spesso con mia moglie. Che ci convenga emigrare? Per dare un futuro ai nostri figli, dico».
Sono frasi, queste, che non sono ancora entrate nei libri dei sociologi, ma testimoniano uno scoramento collettivo, una depressione di massa che non viene registrata nelle statistiche economiche, eppure influisce pesantemente sul futuro del paese, così come le gomme sgonfie influiscono sulla velocità e sulla tenuta di strada dei veicoli. Ecco, l’Italia ha le gomme sgonfie. Solo il premier Romano Prodi ha avuto l’ardire di affermare, addirittura all’inizio di quest’anno, e non dopo una serata di bisboccia fra amici ma dagli schermi televisivi: «Adesso che abbiamo fatto il pit stop, la vettura Italia è pronta a ripartire ad alta velocità». C’è da vergognarsi, per lui. Possibile che nessuno, nel suo entourage, lo avvisi che gli italiani possono essere disprezzati ma non sottovalutati. Gli italiani hanno occhi per vedere e cervello per capire come stanno le cose. Non a caso, l’ultimo sondaggio di Renato Mannheimer per il Corriere della Sera indica che l’apprezzamento per il governo è scivolato sotto il 25 per cento. Un tonfo di proporzioni colossali per la coalizione del centrosinistra a soli due anni dalla pur risicatissima vittoria alle elezioni politiche.
Il tutto viene complicato dall’avvitarsi della situazione economica. Il Pil dell’Italia, infatti, crescerà quest’anno, secondo le ultimissime previsioni della Banca d’Italia, a malapena dell’1 per cento contro l’1,7 per cento (quasi il doppio) che era stato previsto dall’esecutivo nel luglio scorso.
Gli sprechi del Colle
Intanto gli sprechi pubblici non diminuiscono, nemmeno su quei fronti dove più facilmente l’opinione pubblica percepisce lo spreco come tale. E questo nonstante il governo avesse promesso interventi radicali per tosare le pretese della casta politica. Su questo tema sono state spese tonnellate di parole e centinaia di titoli, ma chi ha la pazienza di andarsi a spulciare i bilanci dello Stato del 2007 e del 2008 ha modo di vedere che un conto sono le promesse, un altro sono i comportamenti del governo. Gli italiani si erano indignati nell’apprendere come la presidenza della Repubblica costasse al paese cinque volte più di quella tedesca e più addirittura della corte di Inghilterra. I conti del Quirinale li ha sfondati Carlo Azeglio Ciampi, uno che come governatore della Banca d’Italia, primo ministro e poi capo dello Stato, faceva ogni giorno la predica contro la spesa pubblica disinvolta. L’attuale presidente, Giorgio Napolitano, deve averne preso atto, e ha concordato sulla necessità di smagrire il Quirinale e soprattutto sull’opportunità, almeno, di dare pubblicità al bilancio della presidenza della Repubblica, che finora era sempre rimasto segreto. Confrontando il bilancio 2007 con quello del 2008, però, si scopre che, nonostante le promesse, il Colle spenderà di più, passando da 224 milioni di euro a 231 milioni. Anche le assemblee legi-slative sono senza freni: da 1.484 milioni di euro a 1.521 milioni. La presidenza del Consiglio dei ministri, che aveva tartufescamente proposto tagli per tutti, passa da una spesa di 942 milioni di euro a una di 1.536 milioni. Persino il Csm mette a segno un aumento di spesa dell’ordine del 15 per cento, passando da 26 milioni e mezzo di euro a 30 milioni tondi, salvo poi dire, come al solito, che è a corto persino di carta per mancanza di fondi. In sintesi, la macchina pubblica centrale (le cifre citate sono quelle ufficiali della ragioneria generale dello Stato) si porterà via, quest’anno, un miliardo e duecento milioni di euro in più, cioè, per rendere meglio l’idea, 2.500 miliardi delle vecchie lirette in più. In barba all’austerità più volte annunciata da Prodi.
La sfiducia nel progresso
Gli italiani sono sfiduciati perché non credono, ed è una sensazione gravissima, che il paese sia riformabile. Tale sensazione è diffusa anche per via del fatto che le sanzioni per i comportamenti censurabili non arrivano mai e, quando arrivano, spesso colpiscono a casaccio, oppure obbedendo ad altri interessi. Prendiamo, ad esempio, la vicenda vergognosa dell’immondizia che è stata ammonticchiata per le strade di Napoli. Una vicenda grottesca. Se la pubblica amministrazione non riesce nemmeno a eliminare l’immondizia, che pubblica amministrazione è? E se il Comune di Napoli, pur avendo 10 volte i netturbini di Milano, lascia sommergere la città dall’immondizia, la responsabilità di chi è? A sentire Prodi, la colpa è dei presidenti delle Regioni che non vogliono accollarsi l’immondizia napoletana, gli unici che siano stati da lui investiti a male parole. Eppure la crisi del pattume partenopeo non è un’eruzione o un terremoto. Non è un evento improvviso e incontrollabile. Ma è una vicenda che viene da lontano ed è il frutto di incapacità, inadempienze e sottovalutazioni. Un governo che volesse almeno salvare la faccia di fronte a Napoli, che è stata costretta ad arrendersi alle pantegane, costringerebbe subito alle dimissioni il ministro dell’ecologia Alfonso Pecoraro Scanio, il presidente della Regione Antonio Bassolino, e il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino.
Fra i tre, comunque, quello da far dimettere subito, con provvedimento di urgenza, è sicuramente Pecoraro Scanio, che da sempre si batte contro la realizzazione dei termovalorizzatori in Campania, i soli che avrebbero potuto evitare questa ecocatastrofe. Si calcola infatti che con i soldi sprecati per portare le ecoballe napoletane in giro per l’Europa si sarebbero potuti trovare i mezzi per realizzare sette termovalorizzatori, impianti che avrebbero risolto alla radice il problema dello smaltimento dei rifiuti in Campania. Se questi sono i fatti, un governo che non spinge alle dimissioni Pecoraro Scanio è un governo che ha completamente perso credibilità. Solo dopo le dimissioni dei visibili responsabili dell’ecocatastrofe napoletana si può infatti invocare la solidarietà delle altre Regioni e dare la sensazione che si voglia ricominciare un percorso di moralizzazione e di gestione oculata e previdente della cosa pubblica. In caso contrario, com’è successo per i fondi ospedalieri, che sono stati aggiuntivamente concessi per ripianare i deficit delle Regioni più spendaccione (ma politicamente amiche), la finanza pubblica finisce per premiare gli inefficienti e, contestualmente, punire chi ha usato oculatamente i fondi. L’opposto del logico, del ragionevole e del giusto.
Prendiamo il traforo del Frejus, che consente di realizzare il corridoio ferroviario n.5 che da Lisbona porta, attraversando tutta l’Italia settentrionale, al centro Europa. Per evitare che questo corridoio passasse al Nord delle Alpi, tagliando completamente fuori l’Italia, Silvio Berlusconi (allora presidente del Consiglio) e Romano Prodi (allora presidente della Commissione europea) si batterono assieme per portarlo sotto le Alpi e per farlo finanziare dall’Unione Europea. Ma sono bastati 200 facinorosi provenienti in prevalenza dai centri sociali per impedire che iniziassero i carotaggi preliminari all’avvio dei lavori. In Italia, cioè, bastano 200 organizzati per bloccare un investimento strategico. Da allora, il governo Prodi ha proceduto di dilazione in dilazione, di rinvio in rinvio. Non ha il coraggio di dire che l’opera non si farà e nemmeno il coraggio per farla iniziare. Adesso si scopre (il merito va a Italia Oggi, mentre tutti gli altri organi di stampa, al riguardo, restavano muti come i pesci) che in un documento di 147 pagine inviato a Bruxelles dal ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro si dice che i lavori del Frejus cominceranno fra cinque anni, cioè nel momento in cui essi avrebbero dovuto essere finiti. E – trattenetevi – dureranno fino al 2023. Intanto, però, i francesi che, nonostante tutto, ci avevano preso per seri, avevano cominciato a bucare dalla loro parte. Ma ora, di fronte a un documento di questo tipo, debbono rassegnarsi all’evidenza. Prodi non autorizzerà mai l’inizio dei lavori del traforo del Frejus sul versante italiano. E se i francesi vogliono bucare dalla loro parte fino al confine italiano, si accomodino. Ma poi rimarranno lì a guardare la parete di roccia.
L’impedita partecipazione di papa Ratzinger all’Università La Sapienza di Roma, favorita anche dal defilarsi di tutte le autorità governative (che si sono fatte vive solo quando la frittata era già stata fatta), non è un’offesa solo al Santo Padre e ai cattolici, ma è anche un altro severo colpo alla credibilità internazionale di un paese che non riesce nemmeno a garantire il diritto di parola del Pontefice in una sede, l’università, che dovrebbe essere, per definizione, la sede del libero confronto delle idee.
Che paese è mai quello in cui l’immondizia raggiunge il primo piano dei condomini; che, costretto dai vincoli di Maastricht, blocca la spesa pubblica lasciando però che in essa cresca la metastasi del costo della nomenclatura politica, ovvero tagliando le voci di spesa di carattere sociale e infrastrutturale; che non rispetta gli impegni internazionali concordati con gli altri paesi sulle infrastrutture transfrontaliere; che non è in grado di consentire al Papa di tenere un discorso all’università che lo ha invitato?
Cosa dice di noi l’élite europea
L’immagine internazionale del nostro paese (che vive di export) è al minimo storico. Mercoledi 16 gennaio, ad esempio, l’Herald Tribune, il quotidiano nordamericano più diffuso nell’élite politica, economica e culturale europea, è uscito con una foto a colori di cinque colonne dedicata all’immondizia a Napoli. Con quella foto l’Ht apriva addirittura la sua prima pagina. Quindi giudicava quell’evento come il più importante (anche perché più incomprensibile) evento mondiale della giornata.
Cosa voleva dire quella scelta giornalistica? Che, per l’Herald Tribune, una grande città europea sommersa dal pattume non è più una città europea. Agli occhi dell’opinione pubblica internazionale l’Italia è ridotta a una grande bidonville. Per non parlare degli innumerevoli servizi televisivi da parte dei network tv di tutto il mondo, che ci hanno inevitabilmente descritto come degli sozzoni. Da qui la decisione degli albergatori veneti di fare una campagna tv in Centro Europa per dire che il Veneto non è la Campania e che Venezia non è Napoli. È una decisione terribile, ma inevitabile. Su 34 milioni di presenze straniere in Veneto, oltre 14 arrivano dalla Germania e dall’Austria. E febbraio è il mese in cui, tradizionalmente, i tedeschi scelgono le mete per le loro vacanze estive. Se non si vogliono perdere quei flussi turistici si deve riuscire a spiegare che il Veneto è a 800 chilometri da Napoli. Del resto ora non sarà facile convincere i tedeschi a non mutare i programmi. Se noi leggiamo che in California c’è il colera non andiamo certo a New York in vacanza, anche se la Grande Mela dista 4.500 chilometri da Los Angeles. Per sopravvivere, quindi, il Veneto è costretto a raffigurare Napoli per come essa è. Una città impresentabile e soprattutto invivibile. L’unità del paese si costruisce con comportamenti responsabili o con segni (come ad esempio le dimissioni forzate e immediate dei responsabili apicali di questo sfascio) che lascino capire (o almeno sperare) che il peggio è alle spalle. Prodi ha fatto l’opposto. E il conto delle sue non scelte lo gira adesso all’intero paese, mentre lui, dopo il pit stop, facendo bruum bruum con la bocca, si appresta a ripartire. Alla grande. Sempre con la bocca, è ovvio.
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