
Israele vista da Hannah Arendt
«Ci furono tempi felici in cui si poteva scegliere liberamente: meglio morti che schiavi, meglio morire in piedi che vivere in ginocchio. E ci furono tempi infami in cui intellettuali rincretiniti hanno dichiarato che la vita è il sommo dei beni. Oggi sono arrivati i tempi terribili in cui ogni giorno si dimostra che la morte dà inizio al suo governo del terrore esattamente quando la vita è diventato il sommo bene; che chi preferisce vivere in ginocchio, muore in ginocchio; che nessuno può essere ucciso più facilmente di uno schiavo».
Come sempre, Hannah Arendt non ha mezze misure. Punta dritto al cuore delle questioni. È il 1942, e scrive per Aufbau, il periodico degli ebrei tedeschi emigrati negli Stati Uniti. All’ordine del giorno il problema della costituzione di un esercito ebraico. In una serie di articoli, si schiera con foga in favore di una milizia nazionale degli ebrei.
Perché «nelle nostre stesse file dobbiamo combattere tutti quanti ritengano che da sempre noi siamo stati solo vittime e oggetto della storia. Non è vero, ma se anche fosse vero sarebbe terribile, perché questo ci escluderebbe dalla storia dell’umanità in maniera più definitiva di tutte le persecuzioni». Il vittimismo incoraggia le persecuzioni. Il diritto a essere riconosciuti va conquistato, non si può attenderlo come una benevola concessione. Altro tema portante degli interventi su Aufbau (che “Antisemitismo e identità ebraica” ripubblica integralmente) è il futuro dell’insediamento ebraico in Palestina. Prevede con assoluta lucidità che l’ostilità araba sarà implacabile. L’unica sicurezza possibile sarebbe un grande sistema federale: «Una sorta di federazione mediterranea. In una struttura del genere gli arabi sarebbero fortemente rappresentati, ma non in posizione tale da poter dominare tutti gli altri». Un progetto lungimirante. Se avesse trovato ascolto, molti mali sarebbero stati evitati.
Hannah Arendt, Antisemitismo
e identità ebraica, 197 pp.
Edizioni di Comunità, euro 20,00
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