
Israele-Hamas. «Stavolta non spaventano i missili, ma quel che accade per le strade»

«Quello che sta succedendo tra Israele e la Striscia di Gaza è qualcosa di diverso dalla prima e seconda Intifada: qualcosa di più profondo e difficile da decifrare. Non finirà presto». A raccontarlo a tempi.it è padre Ibrahim Faltas, francescano che da 32 anni vive e opera in Terra Santa. Fu protagonista, suo malgrado, del doloroso assedio alla Basilica della Natività nel 2002, durante la seconda Intifada. Ma questa volta – dice – le cose sono più gravi. Per capire quello che sta succedendo, allora, facciamo prima un salto indietro.
Nelle scorse settimane a Gerusalemme Est – area della città santa abitata prevalentemente da palestinesi dove si trovano luoghi simbolo delle tre grandi religioni monoteiste (Muro del pianto, Spianata delle moschee, Basilica del Santo Sepolcro) – ci sono stati violenti scontri. Inizialmente la rabbia palestinese è stata scatenata da alcune marce dell’ultradestra ebraica nei pressi della Spianata delle moschee e dalla decisione di un tribunale israeliano (poi sospesa) di sfrattare alcune famiglie arabo-palestinesi dall’antico quartiere di Sheikh Jarrah. Nei giorni scorsi, però, Hamas ha iniziato a colpire Israele con migliaia di razzi. Israele ha risposto con raid e bombardamenti.
Quella di Hamas è una mossa politica, dettata dal rinvio delle elezioni palestinesi che si sarebbero dovute tenere il 22 maggio. Rinvio deciso da Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese e leader di Al Fatah, partito politico più moderato che si oppone all’estremismo islamista di Hamas. I sondaggi indicavano chiaramente che più le violenze a Gerusalemme Est andavano intensificandosi, più Hamas volava nei sondaggi. Se avesse vinto le elezioni, avrebbe portato avanti il progetto di islamizzare anche la Cisgiordania e, soprattutto, anni di faticosi piccoli passi verso un dialogo costruttivo tra israeliani e palestinesi sarebbero stati cancellati in un colpo solo.
La divisione interna al mondo palestinese fa gioco agli israeliani (la regola del “divide et impera” vale sempre) e in particolare all’ultradestra che oggi siede in Parlamento e può serenamente dire che non è possibile sedersi a un tavolo di trattativa con un interlocutore debole come Abu Mazen. Ma al di là delle considerazioni politiche, padre Faltas spiega che «questa volta le cose sono diverse».
Padre Ibrahim, lei da tantissimi anni vive e opera a Gerusalemme, conosce le dinamiche latenti, immagino sappia percepire i segnali delle tensioni crescenti. Perché Israele – che negli ultimi anni poteva vantare una buona crescita economica, l’essere il primo paese al mondo ad aver sconfitto il Covid-19 e soprattutto il grande successo politico degli accordi di Abramo – non è riuscito a evitare tutto questo? L’impressione è che ci siano oggi dinamiche interne alle società israeliana e palestinese che sfuggono alla politica.
Vivo qui dal 1989 e non ho mai vissuto una situazione del genere. Ho vissuto la prima e la seconda Intifada, ma questa volta è diverso. Perché? Perché stiamo vivendo una vera e propria guerra civile: non sono preoccupato per quello che succede tra Gaza e Israele: sono scontri già visti. Sono molto più preoccupato per quello succede nelle strade di città “miste” come Lod, Haifa, Bat Yam, Tamra, dove vivono insieme arabi e israeliani. Incendi, linciaggi, pestaggi, sparatorie. Quello che sta succedendo è quasi una guerra civile, ma i media non se ne accorgono. Tutti sono concentrati sui missili, ma il problema – ed è quello che è diverso questa volta – è quello che succede per le strade. Siamo sempre stati abituati a pensare che gli scontri più duri potessero avvenire in città come Betlemme, in Cisgiordania: oggi Betlemme è più sicura delle città israeliane. Stiamo assistendo a una guerra civile, incontrollabile perché nasce dal basso. La rabbia nasce dal basso, non è decisa a tavolino dai leader politici.
Il cuore di tutto rimane però Gerusalemme…
Tutto nasce sempre da Gerusalemme. È dal 1967 che la comunità internazionale cerca di risolvere “il problema” di questa città senza riuscirci. Qui c’è il cuore del conflitto e se non si trova un modo di tenere unita la ricchezza di questa città, qualunque tipo di negoziazione politica non avrà i risultati sperati. Giovanni Paolo II diceva: «Se non ci sarà pace a Gerusalemme non ci sarà mai pace in tutto il mondo». Aveva ragione. Tutto il problema parte da qui: ora si combatte nelle città limitrofe, ma Gerusalemme è un nervo scoperto. Politicamente io credo che la soluzione due popoli-due Stati sia la migliore, ma Gerusalemme deve diventare una città internazionale, di tutti. Gerusalemme è patrimonio dell’umanità.
Nel comunicato del Patriarcato latino di Gerusalemme, si legge che «la pace ha bisogno di giustizia». Come è possibile secondo lei arrivare alla pace senza passare da un perdono?
È difficile. Ma vede, “perdono” e “riconciliazione” sono due concetti cristiani, che non appartengono a ebrei e musulmani. Per questo occorre ripartire dalla possibilità di convivenza, ricercando una pace e una giustizia condivise. Passo dopo passo.
Per chi non conosce da vicino la realtà della Terra Santa, è difficile capire cosa accade. Si finisce per parteggiare o per gli israeliani o per i palestinesi senza sforzarsi di capire. Questo “tifare” per l’uno o per l’altro rischia di amplificare le divisioni, invece che avvicinare ad una soluzione di pace. Lei cosa ne pensa?
È così, e in questo senso anche il ruolo dei media e di tanti politici contribuisce alla confusione. Quello che ho letto e sentito in questi giorni è spesso superficiale, lontano dalla realtà. Qui vivono tre popoli, tre identità diverse e a seconda della città dove uno vive cambiano le regole: essere palestinese a Nazareth non è uguale che esserlo a Gerusalemme o a Betlemme. Quindi questa complessità non si può spiegare i due righe o “risolvere” parteggiando per l’uno o per l’altro, come accade ad esempio per la storia delle case di cui tutti rivendicano la proprietà: ebrei da una parte e palestinesi dall’altra. Chi parteggia contribuisce al conflitto, anche a migliaia di chilometri di distanza.
Qual è il ruolo dei cristiani, oggi, in questa terra santa e insanguinata?
Il nostro ruolo di francescani qui è sempre stato quello di mediare tra le parti in conflitto ed essere accanto alla gente, tutta. Cerchiamo di aiutare una convivenza anche se, ripeto, siamo consci che il problema sia Gerusalemme: non è una città come tutte le altre. Gerusalemme è un messaggio di convivenza, di preghiera, di pace che deve diventare un modello di convivenza tra le tre grandi religioni. Tantissimi giornalisti e politici non capiscono questa realtà, la piegano a preconcetti e convinzioni che nulla hanno a che fare con la complessità di questa nostra amata terra.
Per risponderle, però, parto da un fatto concreto. Io sono il direttore delle scuole della Custodia di Terra Santa: ne gestiamo 18. Oltre alle scuole cerchiamo alloggio alle famiglie in difficoltà o troviamo lavoro, per aiutare i cristiani a rimanere e non abbandonare il paese. Ma sopra ogni cosa, crediamo nel ruolo dell’educazione. Ecco perché abbiamo aperto scuole a Betlemme, Gerico, Gerusalemme, Jaffah, Ramleh. E in queste scuole ci sono 12 mila studenti ebrei, cristiani e musulmani. Perché le dico questo? Perché se è vero che la guerra civile di questi giorni nasce dal basso, dalla gente, è solo dal popolo che possiamo ripartire per sperare. È dalle future generazioni, da questi bambini ai quali insegniamo che vivere insieme in pace è possibile. È una scommessa che portiamo avanti da secoli (pensi che la prima vera scuola aperta a tutti la aprimmo noi a Betlemme nel 1598) e i frutti arriveranno.
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!