«Così si muoverà la Chiesa per arginare la fuga dei cristiani dall’Iraq»

Di Leone Grotti
13 Giugno 2013
Intervista a monsignor Amel Nona, arcivescovo di Mosul, dopo il Sinodo della Chiesa caldea a Baghdad: «Dobbiamo approfondire il senso della testimonianza cristiana e creare lavoro»

«Abbiamo voluto dare un segnale a tutti i nostri cristiani riunendoci a Baghdad, nonostante la situazione della città sia molto grave. Ma il Sinodo è andato bene e ringraziamo Dio per questo». Così monsignor Amel Nona (nella foto a fianco), arcivescovo di Mosul, parla a tempi.it del Sinodo della Chiesa caldea, iniziato il 5 giugno e conclusosi lunedì scorso. Il Sinodo, convocato dal nuovo patriarca Louis Raphaël I Sako, si è occupato soprattutto della drammatica situazione dei cristiani. In Iraq, infatti, dal 2003 a oggi sono fuggiti per l’instabilità del paese e le persecuzioni circa l’80 per cento dei cristiani, secondo alcuni, «non meno del 60 per cento» secondo l’arcivescovo di Mosul.

Perché avete scelto proprio la città di Baghdad per riunirvi?
Perché volevamo far capire a tutti i cristiani del paese che noi, la Chiesa, siamo con loro. I vescovi c’erano tutti, tranne uno, e l’unità che si è vista è una cosa molto confortante. Certo la situazione della Chiesa in Iraq è difficile: nel paese l’economia e la sicurezza vanno molto male, la politica è in crisi, e anche i cristiani che scappano all’estero hanno molti problemi di integrazione.

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Che cosa avete deciso di fare per fermare l’emorragia dei cristiani?
Non dipende tutto da noi, ovviamente. L’emigrazione è causata innanzitutto dalla mancanza di sicurezza, dalla guerra, dal terrorismo e dalla divisione della società seguita al 2003. Per quanto riguarda quello che possiamo fare noi, abbiamo deciso di approfondire nelle nostre diocesi il senso della cristianità e della testimonianza. Dobbiamo riscoprire l’importanza di essere cristiani in questo paese. Inoltre, se possibile, vogliamo realizzare alcuni progetti per far crescere la disponibilità di lavoro. La mancanza del lavoro per i cristiani è un altro grande problema.

Le difficoltà che vivono i cristiani iracheni hanno fermato anche le vocazioni?
No, nella mia diocesi ci sono sei seminaristi e forse altri due se ne aggiungeranno. Certo, in generale abbiamo poche vocazioni, ne servirebbero di più perché il bisogno è molto alto ma ringraziamo Dio e speriamo che tutto andrà bene.

Mosul è forse la città dove i cristiani hanno sofferto di più in Iraq. Qual è la situazione oggi?
È difficile, la più difficile a causa delle tante etnie presenti a Mosul. Devo dire che da un anno i cristiani non hanno subìto minacce vere e proprie, ma lo stato della città è molto preoccupante.

Avete ancora speranza per il futuro dei cristiani in Iraq?
Noi cristiani dobbiamo avere sempre speranza. Nonostante le difficoltà enormi che viviamo, non dimentichiamo che siamo discepoli di Gesù Cristo: questo ci deve dare speranza in una vita buona, quella che noi dobbiamo testimoniare in questa società. Questa è la nostra missione qui in Iraq.

@LeoneGrotti

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1 commento

  1. Vittorio

    E pensare che anni fa stavo dalla parte di G. W. Bush. Mi vergogno profondamente di aver sostenuto le tesi di quel farabutto. Prima che gli USA dichiarassero guerra al medio oriente i cristiani stavano bene, vuoi perchè con Saddam Hussein, Gheddafi, Mubarak, Assad avevamo dei regimi laici e vuoi perchè il mondo arabo allora non identificava le comunità cristiane con l’America.

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