Io, Stato e famiglia

Di Rodolfo Casadei
13 Ottobre 1999
Piccolo ritratto di Antonio Maccanico, il tecnocrate sospettato di essere una spia sovietica

Fosse davvero, per assurdo, un vecchio infiltrato del KGB, l’agente che l’aveva reclutato in tempi certamente remoti avrebbe meritato premi speciali e il conferimento dell’ordine della Stella Rossa. Perché, chi poteva mai immaginare che quel pur diligente e sobrio funzionario della Camera dei Deputati sarebbe diventato un giorno Antonio Maccanico, grande burocrate, tecnocrate e aspirante deus ex machina del groviglio istituzionale italiano? Segretario generale della Camera, capo della Segreteria del Quirinale, presidente di Mediobanca, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ministro per gli Affari regionali, quasi-Presidente del Consiglio, ministro delle Poste e Telecomunicazioni, ministro per le Riforme istituzionali: il cursus honorum del nume avellinese incute rispetto e timore, ma suscita pure genuina sorpresa. Maccanico, infatti, pur essendo figlio di distinta famiglia – il padre è un antifascista doc, il fratello della madre è stato un fondatore del Partito d’Azione e di Mediobanca – porta il marchio della pecora nera, anzi rossa: è militante del Partito Comunista, una buona condizione per essere avvicinati dai sovietici, ma non per fare carriera. Si redime nel 1956 quando, adducendo una crisi di coscienza in seguito all’invasione dell’Ungheria, rompe col Partito e torna, figliol prodigo, alla mai rinnegata famiglia azionista. Diventa intimo di Ugo La Malfa e la sua carriera si fa folgorante, in un turbinìo di cazzuole, compassi e grembiuli. Tecnocrate, grand commis: si fa presto a dire, ma è come dir niente. Maccanico non è un anonimo manager delle istituzioni, ma il portatore e il garante di una cultura politica ben precisa e molto più diffusa di quanto gli elettori-contribuenti credano: “Come noi tutti, è un figlio spirituale di Guido Dorso e Gaetano Salvemini” dice di lui Giuseppe Gargani, una vita nella DC e ora approdato a Forza Italia dopo le burrasche del PPI. “È il saggio a cui si ricorre nei momenti difficili, quello che sai che ha sempre la visione di insieme, perché ha l’orecchio dei poteri forti”. Zaccagnini lo volle al Quirinale a equilibrare l’umorale Pertini; De Mita, amicissimo, lo volle nel suo primo e unico governo. I comunisti, perdonatolo per l’antica defezione, lo ebbero sempre in considerazione in quanto fedele esecutore e continuatore di La Malfa, il profeta laico dell’intesa DC-PCI. E difatti nel febbraio ’96 gli eredi dei partiti del compromesso storico lo chiamarono, per interposto Scalfaro, a incarnare in forma tecnico-istituzionale la creatura politica che vent’anni di tentativi non avevano saputo partorire. Prodi, che era già in pista da sette mesi con la stessa intuizione, se ne ebbe a male e fu sul punto di mollare tutto, ma ci pensò l’inconscio Fini a far pendere la bilancia dalla parte del professore. Oggi Maccanico abbraccia il rivale al trono che lo sconfisse: è entrato nell’asinello prodiano perché comunque il simile va con il simile, e poi con gli impegni europei del bolognese non si sa mai, certi spazi si potrebbero riaprire, e Maccanico è certamente uomo aperto ed ecumenico.

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