«Io l’avevo detto che sarebbe diventato Papa»

Di Annalia Guglielmi
18 Maggio 2020
Le parole di don Ricci all'annuncio dell'elezione di Giovanni Paolo II, l'opera di Cseo, la Polonia. Nel centenario della nascita, un ricordo
Giovanni Paolo II

Nel giugno del 1978 mi recai a Cracovia per conto del Centro studi Europa Orientale (Cseo), fondato da don Francesco Ricci. Il cardinale Karol Wojtyła era da tempo un nostro punto di riferimento ed ebbi modo di incontrarlo, seppur brevemente. 

Nei nostri viaggi nei paesi dell’Europa Orientale avevamo avuto la fortuna di conoscere bene, tra gli altri, il cardinal Wyszyński, primate della Chiesa polacca e il cardinale Metropolita di Cracovia Wojtyła, ed eravamo rimasti profondamente affascinati dalla loro posizione umana e religiosa ben diversa dal clima che respiravamo in Italia e dal loro coraggio nei rapporti con il regime.

Avevamo incontrato il cardinal Wojtyła all’inizio degli anni Settanta. Il gruppo che collaborava con Cseo aveva intrecciato una fitta rete di rapporti con gli intellettuali cattolici dei Club dell’Intellighencja Cattolica (KIK), che avevano dato vita ai mensili Znak (Il Segno) e Więź (Il Legame) e al settimanale Tygodnik Powszechny (Settimanale Universale), i cui redattori erano per noi un importante punto di riferimento e di cui spesso traducevamo gli articoli più significativi, per pubblicarli nel nostro mensile, Cseo documentazione. Si trattava di pubblicazioni ufficiali e quindi sottoposte alla censura, ciononostante erano l’unica voce indipendente nel grigio panorama della stampa ufficiale, e spesso ospitavano nelle loro pagine articoli e saggi di intellettuali anche molto lontani dalla Chiesa.

All’origine dell’impostazione aperta e pluralista delle riviste c’era il rapporto con il cardinale, spesso amico di vecchia data dei redattori, ed egli stesso a volte pubblicava sulle riviste saggi o articoli, o addirittura poesie, sotto lo pseudonimo di Andrzej Jawień. Furono proprio loro a presentarcelo, e i primi iniziali contatti si trasformarono in breve tempo in un rapporto di profonda amicizia e stima, che, soprattutto con don Ricci, continuò anche in Vaticano. Ne ammirammo immediatamente la profonda cultura, la capacità di un giudizio chiaro e fermo, ma soprattutto ci colpirono la decisione con cui ribadiva la centralità di Gesù Cristo nella vita, da cui scaturivano il suo interesse e il suo amore per l’uomo in quanto tale, la sua difesa della dignità della persona immagine di Dio e quindi irriducibile ad ogni schema politico e infinitamente più grande di qualsiasi potere o ideologia. 

Il 16 ottobre 1978 a Forlì stavamo facendo la riunione di redazione della rivista di Cseo, avevamo una radiolina di sottofondo, perché sapevamo che in serata i cardinali, riuniti in Conclave dopo la prematura morte di Giovanni Paolo I, avrebbero votato. Quando il radiocronista annunciò la fumata bianca, sospendemmo i nostri lavori e ci precipitammo davanti ad un televisore. 

Alle parole del cardinale decano «Habemus Papam… Carolum cardinalem Wojtylam» scoppiammo tutti in lacrime, don Francesco, con i suoi due metri di altezza cadde in ginocchio ripetendo incredulo «io lo avevo detto… io lo avevo detto». 

Per noi fu una sorta di conferma della validità del nostro lavoro, ma soprattutto pensammo a tutti i nostri amici polacchi, ungheresi, cecoslovacchi e degli altri paesi dell’Europa dell’Est, perché sapevamo che per loro l’elezione di un Papa slavo, che conosceva la loro vita, le loro fatiche e le loro sofferenze aveva un valore enorme e soprattutto li portava alla ribalta internazionale. 

All’annuncio del cardinal Felici la folla radunata in piazza san Pietro rimase sospesa in un attimo di silenzio. Quel nome “Wojtyła” era sconosciuto ai più, giornalisti compresi. 

Don Francesco aveva insistito con Vittorio Citterich, allora direttore del TG1, perché il nome del cardinal Wojtyła fosse inserito nell’elenco dei “papabili” per i quali la Rai aveva preparato dei servizi biografici. Citterich, piuttosto scettico, chiese a noi di Cseo di fare una scheda biografica e così la Rai fu l’unica televisione al mondo a mandare in onda un servizio sulla vita del Metropolita di Cracovia.

Poi ebbi modo di incontrarlo in Vaticano altre otto volte, e la cosa che mi sconvolgeva di più era che si ricordasse di me, di chi ero e di che cosa facevo. Un testimone per la sua causa di beatificazione ha dichiarato: «L’aspetto più toccante del Papa, è che avevi la sensazione di essere, in quel momento, la persona più importante per lui… aveva una capacità unica di guardare negli uomini e trasmettere loro un’accoglienza e una disponibilità totale», ecco questo è ciò che porto nel cuore come un dono preziosissimo. 

In Polonia l’elezione del cardinal Wojtyła suscitò, ovviamente, un entusiasmo straordinario fra la popolazione: tutte le campane del paese suonarono a distesa e a Cracovia risuonarono i rintocchi della grande campana “Sigismondo”, l’antica campana della cattedrale del Wawel, per la quale occorrono otto uomini, e che suona solo in occasioni eccezionali. Le chiese rimasero aperte tutta la notte e un’enorme folla in festa si riversò per strada con un entusiasmo senza precedenti.

Altrettanto senza precedenti furono la costernazione e lo smarrimento fra i dirigenti del partito, basti pensare che il telegiornale andò in onda con due ore di ritardo, cosa mai accaduta prima, e la notizia venne data con poche e secche parole da uno speaker confuso, irrigidito e soprattutto terribilmente a disagio. 

Nel giugno 1979 Giovanni Paolo II si recò nella sua patria per una visita di nove giorni e tutti concordano nel dire che quelle giornate segnarono il punto di non ritorno. 

Nel numero del 10 giugno del quotidiano clandestino Robotnik (L’operaio) possiamo leggere: «Sono state nove giornate che hanno scosso la Polonia, ci hanno rivelato non soltanto la grandezza del Papa (…), ma ci hanno fondamentalmente dimostrato chi siamo». 

La preparazione della visita fu particolarmente complessa e difficile. I mass media polacchi trasmisero solo primi piani di suore e preti, senza mai riprendere la folla in campo largo. Il servizio d’ordine fu preso in mano dalle parrocchie e non ci furono incidenti di nessun tipo, nonostante qualche tentativo di provocazione.

Ricorda Aleksander Kwaśniewski, ex presidente della Polonia e all’epoca a capo delle organizzazioni giovanili del partito comunista: «Nonostante le difficoltà, furono milioni i Polacchi che seguirono l’itinerario del papa e parteciparono alle Messe e agli incontri. L’apparato di partito era convinto che “in qualche modo saremmo riusciti a sopravvivere” alla prima visita del Papa in Polonia nel 1979, e che “in qualche modo saremmo riusciti a sopravvivere” anche allo stesso Giovanni Paolo II. Tutte le discussioni sulla data, il percorso, i luoghi della visita, le ingerenze della censura sono state un enorme errore, assolutamente lontano dallo stato d’animo della società. Del resto questa situazione ha affossato coloro che avevano preso quelle decisioni. Il Papa si rivelò essere il vincitore. Le decisione prese in quel momento, da quelle persone, possono essere solo motivo di vergogna. Non hanno fermato nessuno dei processi che dovevano avvenire in seguito».

Il secondo pellegrinaggio si svolse a circa due anni dall’introduzione in Polonia dello stato di guerra imposto dal generale Jaruzelski il 13 dicembre 1981. Era un momento particolarmente delicato: Solidarność era fuori legge, molti esponenti del sindacato erano ancora nei campi di internamento o in carcere. Da un lato c’era chi temeva che la presenza del Papa fosse una sorta di legittimazione del regime, dall’altro c’era il timore che gli incontri potessero degenerare in scontri violenti. Ma così non fu. 

Emblematico è un episodio accaduto a Varsavia proprio durante il pellegrinaggio del papa del 1983. Ha ricordato il giornalista ed esponente di Solidarność Konstanty Gebert: «Ci doveva essere una grande Messa in uno stadio immenso a Varsavia e la strada principale di accesso allo stadio passava di fronte all’edificio del Comitato Centrale del partito. La gente che voleva andare allo stadio doveva necessariamente passare di lì. La cerimonia doveva avere luogo al pomeriggio, ma fin dalle prime ore della mattina un’onda immensa di umanità passava di fronte al Comitato dirigendosi verso lo stadio. Il Comitato era circondato dai carri armati, dai soldati col mitra, dai cani e da tutto l’armamentario del regime totalitario. Da dietro le finestre si vedevano i membri del Comitato guardare tutta questa gente che passava. E la gente che passava di fronte scandiva una parola sola (non so di chi sia stata l’idea, ma è stato veramente un genio). E questa parola era: “Noi vi perdoniamo, noi vi perdoniamo, noi vi perdoniamo”. Immaginatevi rinchiusi dentro quel Comitato, dietro i carri armati e i soldati col mitra, a sentire questa parola: “Noi vi perdoniamo”». Era un radicale ribaltamento della situazione, era come quella folla dicesse: “Noi siamo la Polonia, e voi con tutto il vostro armamentario e apparato di potere non ci rappresentate. Noi abbiamo il diritto di giudicarvi e siamo talmente certi della giustezza della nostra posizione che possiamo anche permetterci di perdonarvi”. 

Per quanto riguarda l’influenza che il suo modo di porsi ha avuto sulle vicende di quella parte d’Europa, ricordiamo ancora le parole del presidente Kwaśniewski: «Lo interessavano tutti i nostri problemi, e poi, veniva da questa parte del mondo. Sapeva bene che cosa sono il fascismo e il comunismo. La forza morale, la forza dei valori che era in lui, era straordinariamente acuta, era eccezionale… Ha veramente realizzato un cambiamento eccezionale, che consiste nel dialogo. La forza del Papa nei rapporti con tutti consisteva nel fatto che Egli sapeva ascoltare, ma al tempo stesso presentava le proprie ragioni con fermezza, ma senza essere mai aggressivo, con un grande rispetto per l’interlocutore. Se dovessi portare l’esempio di una persona capace di applicare al dialogo il principio evangelico “vinci il male con il bene”, ecco, potrei dire che Giovanni Paolo II è stato uno dei maestri più grandi». E ancora: «Se il Papa era una minaccia per qualcuno, lo era solo perché diceva la verità: libertà invece che schiavitù, l’uomo e non il collettivismo, libertà di confessione religiosa, tolleranza».

Sono molto significative anche le parole di Kwaśniewski alla notizia della morte del Santo Padre, perché testimoniano quanto la sua persona abbia saputo parlare e toccare il cuore anche di uomini molto lontani da lui per formazione e scelta di vita: «Dopo la telefonata dell’Ambasciatore polacco presso la Santa Sede, la Signora Suchocka, nella quale ci diceva che la morte del Santo Padre si stava inesorabilmente avvicinando, ci siamo riuniti insieme al primo ministro, ai ministri, ai presidenti della Camera e del Senato e ai presidenti dei tribunali. Dopo l’ultima notizia, telefonai a mia moglie che si trovava a Copenhagen, ci fu difficile trattenere la commozione per la grande perdita che tutti sentivamo. Penso che sia stato un grande messaggio del Papa quello di renderci familiari con tutto questo: ogni cosa ha il suo inizio e la sua fine. Al funerale, fra i politici, piangevamo tutti, piangeva il presidente Ciampi, ed io piansi, quando il vento chiuse il Vangelo sulla bara del Santo Padre. Era una cosa di cui nessuno avrebbe potuto fare la regia. Questa fu una di quelle situazioni in cui si diventa umili di fronte a quello che accade. C’è una certa metafisica».

In un certo senso da quel momento l’opera di Cseo subì un cambiamento di rotta: la testimonianza di quanto accadeva in campo culturale, sociale e religioso nei paesi d’oltrecortina assunse anche il carattere di far conoscere all’Occidente le radici culturali ed umane di Giovanni Paolo II.

Vorrei qui ricordare le parole pronunciate alla Radio Vaticana dal cardinal Wyszyński nel suo discorso alla Polonia il giorno dopo l’elezione: «Questa mente profonda di intellettuale titolare di cattedra universitaria, in mezzo alle pile dei libri e dei manoscritti degli articoli e delle tesi, non rinunciò alla libertà della compagnia, dello scherzo, delle partite di pallavolo, delle passeggiate sui monti, per i boschi, per i prati. Il profondo amore per la libertà di peregrinare per i boschi e i campi di casa, dell’uomo innamorato in Cracovia regale fino al punto di mettersi a piangere al pensiero del paradiso perduto. Così non si può trattenere la domanda: Montanaro, non ti dispiace di andartene dalla tua patria? E il nostro Montanaro di Wadowice, quando dal Vaticano riandrà col pensiero ai suoi boschi, quando con la manica si asciugherà le lacrime, di sicuro risponderà: per Dio, Signore, per Dio, per la Chiesa, per la sua causa e per i grandi impegni che stanno davanti all’umanità.

Non è stato certamente un sacrificio da poco e una rinuncia da poco abbandonare l’amata patria, la cui gioia è san Stanislao vescovo, staccarsi dalle torri del Wawel, dalle tombe dei re, dall’amata regina Edvige, dagli occhi ridenti dei fanciulli e dei giovani universitari a cui aveva consacrato cuore, mente, tempo, vita e quell’accattivante sorriso con cui conquistava e legava a Cristo e a sua Madre.

Che ogni cuore, vedendo la grandezza di questo sacrificio, impari ad offrire a Dio e alla Chiesa tutto quanto ha di caro e di vicino. Poiché è tempo di uscire dalla propria particolare via della Croce per entrare in quella che da millenni milioni di uomini percorrono dietro a Cristo verso la Patria celeste.

Ti conceda pace e gioia la Santa Divina Pellegrina, la Signora di Jasna Góra e Regina della Polonia. Gaude Mater Polonia! Tu hai donato alla Chiesa e alla sua Madre il Figlio migliore educato in mezzo alle lotte e alle sofferenze».

Foto Ansa

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